Associazione Davide Lajolo Odv

Saggi

27/07/2020

Dal baule di Cesare Pavese a Il vizio assurdo di Davide Lajolo

di Laurana Lajolo

 

Il 10 marzo 1959 Davide Lajolo annotò nel suo diario: Circa un mese fa ho rilasciato un’intervista alla radio a commento di quella concessa da Pavese nel 1950, parlando della mia amicizia con lui e dei quotidiani incontri serali a “l’Unità” di Torino, durati oltre un anno. Antonicelli ne è rimasto entusiasta e mi ha suggerito di scrivere qualcosa su Pavese. La stessa proposta me l’ha ripetuta Carlo Levi. Ma a decidermi a scrivere la storia di Pavese come biografia umana e culturale è stato Giacomino De Benedetti della casa editrice “Il Saggiatore”. (Ventiquattro anni, 1981):

La fortunata “storia di Cesare Pavese” Il vizio assurdo, pubblicata quarant’anni fa, nel 1960, nacque, dunque, dai ricordi di amicizia tra Lajolo e lo scrittore torinese e fu la prima riflessione, in ordine di tempo, sul destino umano e letterario di Pavese e sul contesto culturale e politico, in cui si era sviluppato il suo ruolo di intellettuale e di organizzatore culturale.

Il libro ricevette una grande attenzione da parte della critica letteraria e un’accoglienza straordinaria da parte del pubblico. Si può dire che Il vizio assurdo insegnò a intere generazione di giovani, negli anni sessanta e settanta, a leggere l’autore de La luna e i falò. Le traduzioni furono numerose nei paesi europei e negli Stati Uniti. Nel febbraio 1961 Lajolo ricevette anche il Premio Crotone.

La biografia rappresentò un evento letterario, in quanto offrì un ritratto di Pavese, suffragato da molte testimonianze e interessanti documenti inediti: lettere e carteggi, appunti personali, poesie giovanili; un ritratto assolutamente diverso da quello che lo scrittore aveva dato di se stesso nel suo diario Il mestiere di vivere, pubblicato qualche anno prima da Einaudi.

Lajolo non volle accettare quella descrizione di un uomo fallito e finito, vinto dalla disperazione e dalla morte. Nel tracciare la biografia, volle scrivere la “storia” di un uomo, parlando dei suoi lati oscuri, ma soprattutto sottolineando le qualità intellettuali, il rigore stoico delle sue scelte di vita e anche il suo sincero impegno politico dalla parte degli operai, in aperta polemica con quell’area dell’intellettualità torinese, che aveva rimproverato a Pavese di non aver avuto il coraggio di fare la resistenza, preferendo rifugiarsi a Crea e frequentare i frati del Santuario.

Lajolo, quando parlava dei suoi amici, fossero essi scrittori o artisti, sapeva andare “sotto pelle” dei suoi interlocutori, soprattutto quando ne faceva le biografie. Aveva un grandissimo e sincero interesse per le storie degli uomini, per le loro emozioni oltre che per la loro attività razionale e creativa. Dopo Pavese, si occupò di Fenoglio (Beppe Fenoglio un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe, 1978) e di Di Vittorio (Il volto umano di un rivoluzionario, 1979) e dei suoi amici pittori (Gli uomini dell’arcobaleno, 1984).

Anche di Cesare tracciò un ritratto inedito e non di maniera. Sottolineò la centralità del legame con la terra di Langa come ispiratrice di tutta la narrativa pavesiana e fece del paese natale Santo Stefano Belbo il microcosmo, in cui Pavese aveva ricavato e ricostruito le vicende umane, storiche e mitiche dei suoi libri. Nella Langa c’era anche l’America della letteratura e i miti dell’etnografia. Su quelle colline, come luogo immaginario e fantastico, Pavese ritrovava, secondo Lajolo, la poesia e la fiducia nella vita, che Torino bruciava. “Un paese vuol dire non essere solo”, aveva scritto Pavese, e Lajolo sembrò far intendere, attraverso le parole di Pinolo Scaglione, che se Pavese fosse tornato, come altri anni, all’Albergo dell’Angelo sulla piazza di Santo Stefano, a fare le sue ferie d’agosto, non si sarebbe ucciso.

La poesia del paese e della terra, scoperta con quella intensità tutta letteraria, diventò, in seguito, per lo stesso Lajolo il parametro di scrittura per i suoi racconti e le sue memorie, quasi che scrivere su Pavese gli avesse consentito di indagare un legame originario con le sue stesse radici, ben piantate in un piccolo paese sulle colline del Monferrato. “Vinchio è stato il mio nido”, scrisse in uno dei suoi ultimi libri ( Il merlo di campagna e il merlo di città, 1983) “Le radici mio padre e mia madre devono avermele piantate ben profonde in questa terra collinosa se non è passato giorno nel corso della mia vita in cui la mente non sia ritornata al pesco sul bricco di S. Michele, ai prati delle Settefiglie, ai boschi della Sermassa, ai filari conchigliosi di Montedelmare.”

La grande fortuna di Lajolo fu di essere stato il primo ad aprire il baule, in cui Pavese aveva riordinato le sue carte, prima di morire.

Lajolo andò a trovare la sorella di Pavese nell’alloggio di via Lamarmora a Torino, dove aveva sempre abitato anche l’amico scrittore. Parlò delle sue intenzioni di tenere fede all’ultima raccomandazione di Pavese, vergata nella stanza dell’Albergo Roma, vicino alla stazione di Porta Nuova, prima di ingoiare i barbiturici, sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò: “Non fate troppi pettegolezzi”. Non aveva intenzione di speculare sugli amori di Pavese o sui suoi tormenti o frugare nei segreti più intimi alla ricerca di un facile successo. Voleva, piuttosto, comprendere fino in fondo la frase dell’ultima lettera ricevuta dall’amico: “Ora, probabilmente, non scriverò più: con la stessa testardaggine, con la stessa stoica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti- Se vuoi sapere come sono adesso, rileggiti La belva nei Dialoghi con Leucò: come sempre, avevo previsto tutto cinque anni fa”.

Secondo Lajolo, le ragioni del suicidio erano da ricercare non solo nel fallimento amoroso, come avevano fatto molti, ma soprattutto nel timore di Pavese di non saper più scrivere, di sentirsi un “fucile sparato”, di “non valere più alla penna”, proprio nel momento in cui lo scrittore aveva ricevuto il Premio letterario più ambito, lo “Strega” per La bella estate (1950).

Dopo alcuni incontri con la sorella Maria, costruiti con rispettose domande sulla famiglia, l’infanzia e l’adolescenza, sulle abitudini quotidiane di Cesare, Lajolo ottenne finalmente di aprire il baule e di consultare le carte lì rinchiuse. Pavese aveva bruciato, nei giorni precedenti la sua estrema decisione, tutto ciò che non voleva cadesse sotto gli occhi di estranei. La sorella, obbedendo all’ordine perentorio del fratello di non toccare le sue carte, non aveva mai aperto quel baule. Nella stanza tutto era rimasto fermo nel tempo, per dieci anni.

L’emozione di Lajolo fu enorme: gli sembrò di avere la chiave di accesso al Pavese segreto, a quello vero e non a quello dell’autorappresentazione del Diario o delle descrizioni di amici e denigratori. E decise che l’interpretazione più attendibile di Pavese doveva prendere spunto dagli appunti, dalle lettere giovanili, dalle annotazioni per le traduzioni e da alcuni personaggi dei libri, in cui lo scrittore, in forme spesso non esplicite, descriveva parte della sua personalità.

Lasciandosi coinvolgere dalla dimensione umana che veniva fuori da quelle carte, Lajolo volle soprattutto cercare di capire il groviglio tra sentimenti e razionalità: euforia e tristezza, illusioni e delusioni, fallimenti amorosi e risultati professionali, poesia e mito. Riuscì ad affrontare i temi delicati e controversi della vita di Pavese e non soltanto a delineare il profilo intellettuale e il successo letterario dello scrittore.

Cominciò così a raccogliere testimonianze in lunghe conversazioni con gli amici: Pinolo Scaglione, Mario Sturani, che gli mise a disposizione molte lettere del periodo del liceo, Massimo Mila, Augusto Monti, Elvira Pajetta, Fernanda Pivano, la cugina di Cesare, Federica, il direttore didattico Enrichens, il conte Poli e molti altri.

Il professor Monti, docente di Pavese e di molti esponenti illustri dell’antifascismo torinese al Liceo D’Azeglio, rivestì il ruolo di insegnante anche con Lajolo. Gli raccontò episodi della vita scolastica, dando giudizi complessivi sui comportamenti del suo allievo, indirizzò delle valutazioni e soprattutto corresse “il compito”. Lajolo, infatti, con umiltà e un po’ di trepidazione, sottopose al prof. Monti alcuni capitoli della sua biografia in corso d’opera, e Monti, con puntigliosa precisione, fece le sue dettagliate correzioni, esortando, con severità, l’autore ad essere attento a certi passaggi, che potevano risultare imprecisi, e a rivedere con calma alcune pagine ancora approssimative, suggerendogli anche nuovi inserimenti come l’interesse di Pavese per il cinema. Lajolo gliene fu molto grato e tenne conto della lezione.

Con Elvira Pajetta parlò del figlio Gaspare, morto a sedici anni in un’azione partigiana. Elvira non perdonò mai l’esortazione di Pavese al figlio adolescente di “uccidere un tedesco”, mentre lo scrittore non aveva fatto la scelta partigiana. Mamma Pajetta scrive nel febbraio ‘60: “Veniamo all’argomento Pavese e al tuo futuro libro che dimostra molto coraggio davvero. Non so se tu eri al suo funerale: nessuno osò dire una parola su quel tumulo coperto di fiori: nessuno. Il suo scontroso ritegno pareva averlo accompagnato nel viaggio volontario verso il silenzio e la pace. Io posso ben poco aiutarti perché l’ho conosciuto molto poco, direttamente, e appena un po’ di più attraverso Gaspare che lo ammirava e tentava di imitarlo.” E più avanti parla apertamente di “destino di perdizione” di Pavese e del giudizio fortemente negativo, che lei aveva maturato su Il mestiere di vivere. “Il diario mi fa diventare ferocemente polemica quasi ad ogni pagina &endash; quella che tu chiami letteraria viltà e che così apertamente confessa “In prima che il gallo canti” è la sua cerebrale incapacità di vivere la vita dei vivi, la mancanza di sangue, di nervi, di vitalità che lo trattiene dai vent’anni in su sull’orlo di un suicidio sempre pensato e sempre procrastinato &endash; come la vendetta di Amleto. Il mio diario l’ho coperto di note cattive: eppure sarebbe così facile avere pietà di lui, se proprio la tua pietà non fosse per lui l’estremo insulto, e tu che lo ammiri e gli vuoi bene non fossi deciso a risparmiargliela.” A conclusione della lettera, nel postscritto Elvira aggiunge: “Volevo parlarti di Gaspare allievo di Pavese. Dopodomani, il 13, saran sedici anni che è caduto, ma ancora di lui mi riesce impossibile parlare e non ho mai voluto scrivere per nessuno.” (Lettera a Ulisse, 10.2.60).

Pajetta aveva capito benissimo che l’impulso di scrivere di Lajolo veniva dal suo profondo affetto per l’amico Pavese, di cui voleva mettere in evidenza l’impegno di vivere e quelle doti positive, che sembravano non essere riconosciute dalla cerchia delle conoscenze.

Nella raccolta delle testimonianze, insieme a quelle affettuose e comprensive di Mario Sturani e di Pinolo Scaglione, Lajolo si imbatteva anche in giudizi tremendi come questo di Elvira Pajetta, che pure contenevano parte di verità, se in un autoritratto inedito, che Lajolo pubblicò ne Il vizio assurdo, lo stesso Pavese si era descritto come un solitario, che non riusciva a comunicare, ma che recitava se stesso nella vita, con manie di assoluto. E proprio in quelle pagine aveva anche dichiarato la sua impotenza fisica quando era innamorato di una donna.

Tema scottante e difficile per Lajolo questa dell’impotenza sessuale, oggetto di molti pettegolezzi. L’amico Lajolo tentò di sdrammatizzarne la portata e di giustificarla dal punto di vista psicologico, ma trattò l’argomento con un certo disagio, quasi come una vergogna da occultare.

Alcune carte nel baule riportarono a una ragazza, di cui Pavese si innamorò non corrisposto e a cui chiese di sposarlo due volte, a distanza di cinque anni. Fernanda Pivano, sua allieva per un breve periodo, provò una grande ammirazione intellettuale e fu istradata da lui alle traduzioni, in particolare a quella splendida della raccolta di poesie Antologia di Spoon River. Pivano fece molta fatica a parlare con Lajolo del suo rapporto con Pavese, che conservava nel suo cuore con senso sacrale, ma a poco a poco gli fornì indicazioni preziose per capire meglio certi passaggi della vita di Pavese. Gli scrisse una lettera molto sincera sui sentimenti più intimi e sulla sua amicizia con Cesare. “Per te ho pensato che la soluzione di parlare di questa mia storia, senza farlo apparire yb semplice pretendente respinto, cosa che non permetterei mai, si può trovare molto semplicemente nella verità. (É) Mi pare che potresti dire che uscito dalla terribile esperienza sessuale con la Tina, ha ripiegato su di me perché ero del tutto asessuale (userei questa parola per definire i nostri rapporti, piuttosto che quella un po’ fessa di “platonici”). E’ vero che ho rifiutato il matrimonio con lui; ma altre cose non mi ha mai chiesto (in cinque anni non ha mai cercato di baciarmi neanche la mano). (É) Io gli ho voluto molto bene e non so perdonarmi di non averlo amato. Ma almeno non gli ho mai mentito, e l’ammirazione, la stima che avevo per lui sono la cosa più bella che abbia mai provato.” (Lettera a Ulisse, senza data).

Nanda non volle mai che Lajolo rendesse pubblica in versione integrale la sua lettera, troppo sicnera e intima, e neppure nel suo recente libro, Il quadrifoglio, una raccolta di emozioni e situazioni autobiografiche, in cui accenna a Pavese, non ha rivelato il senso più profondo di quella relazione per la sua vita.

Fernanda Pivano rispose alle domande di Lajolo “di cuore”, come lei stessa disse, mentre fu molto diverso l’atteggiamento di Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca” de Il vizio assurdo. La Pizzardo, infatti, non volle mai incontrare Lajolo e rilasciargli una testimonianza. Scrisse, invece, un libro autobiograficoÉÉÉÉ, qualche anno fa, in cui parlò in prima persona del suo amore con Pavese, criticando l’immagine che di lei aveva costruito Lajolo.

Certamente ne Il vizio assurdo “la donna dalla voce rauca” è presentata come l’origine dei guai esistenziali di Pavese: l’arresto e la condanna al confino per coprire Tina militante comunista, legata ad Altiero Spinelli in quel momento in carcere, il fallimento amoroso, che avrebbe segnato il resto dell’esistenza di Pavese, il raggiro e il tradimento femminile.

Probabilmente un certo giudizio maschilista di Lajolo su una donna emancipata e molto in anticipo sui tempi condizionò il ritratto della donna, ma nelle sue memorie, la stessa Tina Pizzardo si è descritta come una donna libera e disinibita, piena di vita e di socialità, anche volubile, che aveva bisogno di legami con più uomini contemporaneamente. Lajolo la descrisse in modo decisamente più drammatico, tenendo conto dell’influenza travolgente su Pavese nel suo rapporto infelice con le donne.

La rete dei testimoni diventò sempre più fitta e interessante, fornendo elementi su Pavese molto differenziati e multiformi e Lajolo iniziò a comporre il mosaico esistenziale, preoccupandosi di tracciare il ritratto dell’uomo Pavese più che dello scrittore.

Lajolo non era un critico letterario né un ricercatore accademico, bensì un giornalista con una vena lirica di scrittura e una capacità straordinaria di delineare paesaggi, personaggi, situazioni. Di questo, infatti, si sostanziò Il vizio assurdo. Le parti più riuscite, come riconobbe il prof. Monti, risultarono l’introduzione, con il ricordo di una conversazione con Pavese, in piazza Statuto a Torino, l’infanzia e la famiglia, le scorribande sul Po, mentre il cospicuo numero e la rilevante qualità degli inediti diedero un rilievo straordinario di novità al libro. Gli inediti divennero, poi, fonti importanti per studi successivi: le lettere, le poesie liceali, le rubriche di traduzione, le lettere dal confino, il repertorio fotografico.

Fu un libro di grande successo che uscì presso la casa editrice “Il Saggiatore” di Alberto Mondadori, che, proprio alla fine degli anni cinquanta, aveva progettato, con gli intellettuali più qualificati della cultura milanese, una casa editrice di alto profilo nel campo della saggistica, decisamente diversa dall’impostazione commerciale della casa editrice del padre Arnoldo.

Einaudi, a cui si era rivolto Lajolo, aveva rifiutato il libro con questa motivazione: “Un tuo libro su Pavese avrebbe caratteristiche inconfondibili dal punto di vista umano e politico, e arricchirebbe molto la conoscenza di Pavese. Ti incoraggio di cuore a scriverlo. Editorialmente, per ora, la nostra linea è di continuare a pubblicare gli inediti di Pavese (affronteremo tra poco la raccolta dell’epistolario e chiederemo anche a te le lettere che hai di lui), ma non libri su di lui.” (Lettera a Ulisse, Torino, 27 luglio 1959).

E sempre Einaudi, dopo l’uscita del libro, ne prese le distanze: “Perciò ho scorso il tuo libro con un certo disagio; pur rendendomi conto che esso è nato da un sentimento sincero di amicizia e basato su un caloroso e umano intento morale. Quello che soprattutto ho apprezzato è il tuo lavoro, veramente ottimo, di ricercatore di notizie, di testimonianze, di fotografie, di lettere. E penso che ora che ci metteremo a raccogliere l’epistolario di Pavese, la tua collaborazione ci sarà preziosa. Spero di poterci contare, e ti farò sapere qualcosa.” (Lettera a Ulisse, Torino, 23 dicembre 1960).

Lajolo prese male questo rifiuto e, nonostante la lunga amicizia con Giulio Einaudi, i rapporti con l’editore si incrinarono e diventarono molto difficili, soprattutto in relazione alla pubblicazione dell’epistolario, ma questo è un altro discorso, che meriterebbe uno spazio a sé.

Il vizio assurdo può avere molte letture, secondo i molteplici propositi che hanno guidato Lajolo. Ho già accennato all’intento pedagogico, che è sicuramente molto forte ed esplicito. L’accento nella biografia è posto sulla battaglia, che Pavese condusse per 42 anni per vivere, piuttosto che sulla sua tragica fine, anche se il suicidio restò l’atto assoluto, registrato nel titolo della biografia, ricavato da un verso della poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Il sottotitolo storia di Cesare Pavese sottolineava soprattutto la voluta narrazione di una vita, piuttosto che un’impostazione critica del profilo biografico.

Considerando il forte vitalismo e l’appassionato attaccamento alla vita, che contraddistinse la personalità di Lajolo, così diversa da quella di Pavese, il suicidio, in quanto fallimento esistenziale, era in sé un atto incomprensibile, che poteva trovare una giustificazione nella spietata solitudine in cui Pavese era stato abbandonato non soltanto dalle donne, ma anche da certi intellettuali torinesi, così intransigenti nel rivendicare la propria purezza antifascista e resistenziale e così duri nel giudicare vigliacco lo scrittore che non aveva fatto la scelta armata.

Ed è proprio Lajolo, il coraggioso comandante Ulisse delle Brigate Garibaldi nel Monferrato, che volle difendere l’amico, ricordando le sue battaglie intellettuali contro il fascismo e il suo impegno politico nel partito comunista dopo la Resistenza.

Pavese aveva subito critiche e emarginazioni all’interno del P.C.I. e anche nell’ambito della casa editrice Einaudi, perché considerato non sufficientemente organico alla linea del partito.

Lajolo aveva una sensibilità particolare nei confronti delle critiche degli antifascisti, perché lui stesso era stato prima fascista e poi comunista. Aveva scritto un libro sulla sua sofferta esperienza autobiografica, scegliendo provocatoriamente come titolo Il voltagabbana (1963), e aveva dovuto giustificarsi tutta la vita rispetto alle accuse non solo degli avversari politici, ma anche dei compagni di partito e degli antifascisti coerenti.

L’ambiente torinese era ancora più severo e rigido di altri. In questo senso, alcune reazioni sdegnate all’ultimo libro dello storico Angelo D’Orsi (La cultura a Torino tra le due guerre, 2000) confermano la durezza dei giudizi subiti anche da Pavese. Quando D’Orsi, documenti alla mano, affaccia l’ipotesi di un’acquiescenza della cultura antifascista torinese al regime, viene a rompere una codificata visione di un antifascismo torinese senza alcuna compromissione, neanche quella assolutamente necessaria per esercitare una funzione intellettuale in un regime dittatoriale.

Il vizio assurdo aprì, quindi, anche questo fronte polemico nella sinistra, dentro e fuori il P.C.I..

Ma l’intento pedagogico prevalente di Lajolo si espresse nella preoccupazione di contrastare l’autorappresentazione spietata di Pavese nel Diario, che affascinava molti lettori. Lajolo temeva l’influenza soprattutto sui giovani di una concezione disperatamente negativa sul senso della vita e dell’impegno e la deriva verso forme di pessimismo esistenziale.

L’uomo Pavese, ne Il vizio assurdo, pur vivendo una vita quotidiana banale e ristretta a una routine familiare piccolo-borghese, fu rappresentato come un uomo straordinario per sensibilità e cultura, caratterizzato dal magico legame con le Langhe, la primitiva madre-terra. Lajolo tracciò il profilo dello scrittore dalle sue prime prove poetiche e narrative all’opera più matura e mise in luce, per la prima volta, il ruolo di grande organizzatore culturale della casa editrice Einaudi e il suo contributo di innovazione nella cultura italiana, attraverso l’introduzione della letteratura americana, l’interesse per l’etnografia, le nuove tendenze letterarie.

Ma qual è, dunque, il Pavese vero? Quello di Lajolo o quello autobiografico del Diario? Certamente, Lajolo costruì il “personaggio Pavese”, perché la sua biografia, senza nulla levare all’attendibilità della ricerca e delle testimonianze, aveva l’andamento del romanzo, della “storia” appunto, come costruì emblematicamente altri personaggi.

Pinolo Scaglione, falegname di bigonce alla Piana del Salto di S. Stefano e amico di sempre di Cesare, ebbe per Lajolo una vera venerazione. Dopo essere stato identificato ne Il vizio assurdo con il Nuto suonatore di clarino de La luna e i falò, assunse il ruolo di testimone privilegiato del rapporto di Pavese con le Langhe e di Pavese scrittore langarolo, rilasciando numerose interviste e identificandosi totalmente con il personaggio di Nuto.

La “donna dalla voce rauca” fu, da quel momento, sempre citata così, come se tale individuazione fosse diventata l’identificazione reale di Tina Pizzorno, che riuscì, per altro, a difendere strenuamente per lungo tempo la sua privacy, rimanendo una sorta di “innominato” al femminile.

Un altro personaggio fu il conte Grillo, il trasgressivo personaggio di Poli de Il diavolo sulle colline, rintracciato da Lajolo, dopo molti anni, in cui di lui si erano perse le tracce.

Augusto Monti fu assunto a modello di maestro di pensiero e di formatore esemplare di generazioni di antifascisti e di uomini di cultura.

L’attrice americana diventò la bellissima “allodola” straniera che si era fermata per pochi istanti presso il covone di grano di Pavese.

Lajolo utilizzò e interpretò gran parte delle testimonianze, delle fonti e della documentazione, che aveva raccolto durante il lavoro preparatorio, ma non scrisse tutto: alcune cose non le rese mai pubbliche, rispettando la volontà dei testimoni, altre le tacque per delicatezza nei confronti della famiglia e di qualche amico, altre le trattò con particolare pudore, non cercando ad ogni costo lo scandalo o lo scoop. Riuscì sempre a maneggiare le carte inedite, trovate nel baule nella stanza di Pavese in via Lamarmora, con l’attenzione affettuosa verso l’amico.

Le intenzioni dell’autore furono rese esplicite nelle conclusioni del libro: “Quello che mi sono soprattutto sforzato di fare è di distogliere i lettori di Pavese dall’errore capitale di giudicare la sua figura esclusivamente da come egli la rappresenta nel Diario. Nel Diario Pavese si muove tra vanità e paura, tra la pietà di se stesso e il tentativo sempre più soffocato di uscire dall’isolamento. Ma il Pavese pubblico non è meno reale del pavese privato, la sua angosciata ma coraggiosa ricerca per legarsi al mondo degli uomini non è meno importante della sua desolante rinuncia.

Mi rimane la coscienza di avere almeno tenuto fede ai suoi insegnamenti per scrivere con sincerità la sua biografia. Ho arato la sua vigna perché sulla terra smossa il ricordo di Cesare Pavese rimanga al di là del fuoco dei falò, al cospetto dell’intramontabile luna.” (Il vizio assurdo, p.375)

Le lettere citate sono conservate nell’Archivio Davide Lajolo.

Da “Il vizio assurdo “Pagine del Piemonte, 2000, 12 agosto 206

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