21/01/2023
Percorso Formativo 2022/2023: Educare alla valorizzazione dei Siti UNESCO a partire dalle Residenze Sabaude
di Laurana Lajolo
CORSO DI FORMAZIONE PER INSEGNANTI DI SCUOLA PRIMARIA E SECONDARIA DI I E II GRADO e STUDENTI DI SCUOLA SECONDARIA DI II GRADO – 3°INCONTRO
Lunedì 12 Dicembre 2022,ORE 15.00-18.0
Campus ONU di Torino, Pad. Piemonte,
Viale Maestri del Lavoro, 10
“I Paesaggi Vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato”
LAURANA LAJOLO
Presidente dell'Associazione Culturale Davide Lajolo
Il video La Ru. Clelia e Ariosto che abbiamo visto è un’interpretazione di due danzatori che questa settimana sono qui a Torino per partecipare al musical “7 spose per 7 fratelli”, e che vivono a Vinchio. Cristian Catto andava a giocare vicino. Io amo dire che la quercia secolare, che noi chiamiamo “La Ru” e si trova in territorio di Vaglio Serra, ha salvato il suo territorio anche grazie al valore letterario che lo scrittore diede a quel luogo con un racconto contenuto nel libro Veder l’erba dalla parte delle radici, da cui è stato liberamente tratto il video. Inventò la storia di Clelia e Ariosto in tempo di peste nel 1623-33, quando si diceva che salendo sugli alberi ci si salvava dal contagio. Oggi la Ru è monumento naturale della Riserva naturale della Val Sarmassa.
Già Beppe Rovera vi ha accennato che per avere la Riserva Naturale della Val Sarmassa ci si è dovuti impegnare, si è dovuto lottare. Lo ha fatto Davide Lajolo con un racconto da cui è tratta questa danza,
Davide Lajolo si era opposto a un tentativo di speculazione edilizia nella Valle con un articolo su “La Stampa”, rivolgendosi direttamente all’amico Giorgio Bassani, allora presidente di Italia Nostra. Alcuni proprietari non accettarono le proposte di vendita della società della speculazione e la speculazione fu fermata. In quel periodo Lajolo scrisse anche il racconto Questa valle è il mio mare, pubblicato nel libro I Mé.Quando, da bambino, Davide Lajolo, andava alla Ru, si immaginava (lui che non aveva mai visto il mare) che il mare fosse così, come le onde delle colline, era il suo “mare verde” e quel territorio non doveva essere volato dal cemento.
Davide Lajolo morì nel 1984 e, dopo di lui, sono state le comunità di Vinchio e Vaglio Serra a difendere la Valle, perché una società, subentrata alla precedente, aveva fatto richiesta per aprire una discarica industriale. La Valle è confinante con le cantine di Vinchio e Vaglio Serra e le comunità hanno lottato, hanno raccolto firme, fatto passeggiate per dimostrare la bellezza del territorio e, finalmente, hanno convinto la autorità a non dare l’autorizzazione.
Oggi intorno a quella quercia, La Ru, ci sono tante altre querce che si parlano tra di loro. La quercia secolare è cava, per evitare la sua umidità interna è nato un sambuco, la solidarietà vegetale è molto importante.
Ho voluto partire da questa emozione, che io sento, per raccontarvi come il millenario paesaggio delle vigne e dei boschi sia cambiato nel tempo, ma abbia mantenuto una caratteristica essenziale: l’interazione tra chi lo lavora e la natura. È un paesaggio che è trasformato del lavoro umano, che ha rispetto per i cicli naturali. È un paesaggio millenario, perché qui c’era davvero il mare, il mare Padano, aveva ragione Davide Lajolo. Queste sono colline emersero gradualmente dal mare e mantengono ancora l’ondulazione delle onde.
Su questo territorio sono passati moltissimi popoli. Il toponimo “Val Sarmassa” viene da un popolo ricco dell’est Europa, i Sarmati, combattivi, potenti, ma vinti dall’imperatore Traiano e mandati a fare la guardia nella periferia dell’impero. Poi sono arrivati i Saraceni, e la leggenda racconta che il marchese di Aleramo abbia sconfitto i Saraceni nella valle della Morte di Vinchio, dove ci sono gli affioramenti paleontologici. Sul Bricco di Monte del Mare, che ho messo a disposizione del pubblico al momento dell’istituzione della Riserva (che il prossimo anno compie 30 anni), c’è una scultura, fatta con cerci di botte, di una balena proprio a simboleggiare la presenza del mare preistorico in quella valle.
Il paesaggio viticolo ha una storia molto lunga, che la definizione di patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO racchiude alla perfezione. Ve la leggo “colline ben coltivate in cui sono riconoscibili le antiche divisioni di proprietà con costruzioni che caratterizzano la visuale spaziale, villaggi sulla cima delle colline, castelli, chiese romaniche, cascinali, casotti, cantine, stabilimenti vinicoli e luoghi di distribuzione commerciale dei vini nei paesi ai margini delle vigne. Le diverse caratteristiche architettoniche - storiche degli elementi legati alla produzione vinicola che rievocano l’arte autentica e antica di fare il vino si coniugano armonicamente con le qualità estetiche dei paesaggi, che rappresentano un archetipo di vigne europee.”
Quelle colline rappresentano, dunque, gli archetipi delle vigne europee ed è un paesaggio armonico, così lo dobbiamo considerare e conservare, anche se i cambiamenti climatici pongono problemi molto grossi, come sanno bene gli agronomi e gli imprenditori agricoli,.
Perché c’è questo legame insito nei luoghi tra chi lavora e la vigna? Prima di tutto perché la vigna è un’opera d’arte, in cui bisogna lavorare tutti i giorni ed ha bisogno di molte cure differenziate. La vigna dà il raccolto e ci lavora tutta la famiglia, o almeno ci lavorava, perché anche nel mondo contadino sono cambiate molte cose. I vecchi contadini usano un solo termine, “campagna”, per parlare del luogo di lavoro e il prodotto annuale, perché c’è un patto reciproco, che non bisogna tradire, tra chi lavora e la terra.
La vigna era lo scenario esistenziale del contadino, ma lo è anche oggi per gli imprenditori agricoli che oramai sono dei tecnici. Questo patto reciproco noi l’abbiamo ancora rintracciato, dico noi perché con Beppe Rovera abbiamo girato un documentario intervistando dei giovani imprenditori. Quando abbiamo pensato al titolo non abbiamo avuto dubbi, l’abbiamo chiamato “Grazie alla terra”, il patto continua.
I contadini seguivano il ritmo ciclico della natura, adesso ci sono molte tecnologie che vanno al di là delle fasi lunari, ma la pazienza e l’attenzione ai cicli naturali, che aveva il vecchio contadino, la deve avere anche l’imprenditore agricolo. La pazienza è legata ad una concezione di tempo che ha un prima, un presente e un futuro, è un tempo che scorre ciclico. appunto Non è mai solo presente il tempo del contadino e anche quando viene la grandine che distrugge tutto, il giorno dopo si va nella vigna a curare la vite. Si ricomincia.
I contadini ci hanno lasciato una memoria materiale, ma anche una immateriale: la memoria delle comunità. Io sostengo che i contadini sono dei grandi narratori, i contadini di una volta usavano il loro tempo di pausa e di festa per raccontarsi le storie. Passavano così la tradizione.
Se pensate ai dialetti hanno poche parole essenziali. I contadini non raccontavano il mestiere ai figli spiegandogli le azioni da compiere, ma facendogliele vedere e ripetere sotto la loro guida. La narrazione contadina è fatta di trasposizione di memoria alle generazioni future, ma è anche un tramandare il saper fare, una costruzione di memoria.
C’è una definizione della parola “narrazione” che io vorrei darvi: narrare vuol dire stabilire un rapporto tra chi racconta e chi ascolta. Molto spesso chi raccontava nella comunità contadina, veniva interrotto per dire “ma no, non ti ricordi, era così” e la narrazione si accresceva. La narrazione è relazione.
Questo passaggio di memoria attraverso le parole e i gesti, spiega, secondo me, perché nella seconda parte del '900 c’è un salto tra memoria orale e la letteratura. Cesare Pavese scrive “La luna e i falò” perché quella storia gliel’ha raccontata un falegname di Santo Stefano Belbo suo amico, che faceva le bigonce per tutta la valle del Belbo. E Cesare Pavese da scrittore rende mitico un territorio, inventa il fascino delle Langhe, rende personaggio assoluto il povero Cinto.
Sentite come descrive la vigna “La vigna è ad altezza d’uomo, su ogni tralcio, su ogni zolla di terra su cui sorgono i filari sta segnata la secolare fatica contadina. Il vignaiolo comincia a potare la vite quando le sue scarpe si immergono ancora nel fango dell’inverno. È ancora freddo e già vedi i contadini imbacuccati, le mani arrossate arrancare tra i filari mentre scelgono uno ad uno i rami per decidere quali sono quelli che metteranno i grappoli e debbono perciò avere tutto il vigore delle radici, e gli altri che debbono invece essere recisi. La potatura non è solo un mestiere, è un’arte. (…) i tralci tagliati mettono lacrime. Se passi tra i filari è come assistere a un pianto silenzioso e sei portato a sentire la vite come una creatura.”
Pavese usa la sua profonda conoscenza dei miti greci per dare un’anima simbolica alla vite. Poi fa un'altra operazione sul dialetto di Santo Stefano Belbo, lo filtra attraverso la sua conoscenza della cultura letteraria americana. I suoi libri non sono localistici, sono universali e le Langhe sono diventate universali. È un’operazione estremamente importante, anche se il contadino di Santo Stefano non ha mai letto Pavese, il mondo vede quel luogo con lo sguardo letterario.
Oggi i libri valgono meno come guida a fare esperienze, ci sono altri strumenti di comunicazione. Ma io ricordo studenti che arrivavano a Santo Stefano Belbo con i libri di Pavese in mano, cercando i luoghi che lui aveva descritto, ed erano convinti che li avrebbero trovati.
Fenoglio fa un'altra operazione, nel tentativo di non assomigliare a Pavese, va più indietro, all’arcaica Madre Langa, terra di miseria, di disperazione. Influenzato dal teatro elisabettiano dà il senso di tragicità alle vicende langrole.
Fenoglio è un grande inventore di linguaggio, linguaggio duro, essenziale, che prende della parlata dell’alta Langa. Costituita da personaggi spesso isolati, solitari e disperati.
Intensa è la sua descrizione del bosco “Saliva nel fresco cuore del bosco, per sentieri inizialmente scivolosi, ma d’una piacente sportiva scivolosità, il furore evaporandogli nel fresco, umido alitare del bosco. (…) Dopo le raffiche del mattino, il bosco aveva per lui un nuovo haunting, come di vera officina della natura, nel vibratile silenzio, e con occhio attento e passo leggero scansava i punti anormalmente sollevati, quasi enfiati, con sopra l’erba alta e bianchi i fiori come incredibili e sgomenti di quel loro spropositato rigoglio del bosco. Johnny ci entrò il primo, avendo sotto i piedi una sensazione di piano asfodelico”.
Davide Lajolo pubblica racconti più tardi degli altri due scrittori. Pavese muore nel 1950, Fenoglio nel 1953 e non percepiscono ancora, come invece è chiaro a Lajolo, la consapevolezza che stava finendo la civiltà contadina e quindi bisognava conservare letterariamente la memoria delle persone, delle loro storie. Decide allora di raccontare le storie dei contadini di Vinchio, che incontra nelle sue passeggiate in campagna, fatti che gli vengono spontaneamente raccontati perché lui sascrivere.
Davide Lajolo ama moltissimo la sua campagna e la descrive con una leggerezza quasi poetica “Il sole, quando illumina il verde della campagna, è diverso da quello che splende sul mare. Diverso nei riflessi: tra luci e ombre dipinge ogni cosa con la metafisica incantata di Morandi. Una lucertola si stende, ferma, quasi voglia ascoltare compunta il dialogo tra il cardellino e il merlo, infittito tra le foglie dei pioppi come richiamo misterioso nel linguaggio e nel ritmo. Quando il caldo fa afa, comincia il concerto assordante delle cicale. Tacciono gli uccelli, solo il gallo dai cortili, ritto sulle zampe, alta la cresta rossa, interloquisce indispettito di tanto frinire, quasi disturbasse le sue galline accovacciate sotto l’ombra dei grossi oleandri dal profumo amaro. La campagna dorme, non c’è brezza che faccia fremere neppure le foglie leggere delle gaggie e dei salici allineati in lunghe file sui costoni che portano a valle. È la mia ora. Mi piace iniziare le passeggiate sulla terra sonnolenta. I due cani, Tobia e Argo, fanno strada, la lingua penzoloni, finchè arriviamo ai boschi di castagno e ci inoltriamo nell’ombra sapida di sapori silvani.”
Venite a conoscere queste creature viventi che sono le nostre colline, grazie.