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SPAESATI Comunità rurali e paesaggio agrario

10/07/2023

SPAESATI Comunità rurali e paesaggio agrario

di Laurana Lajolo - Quaderno di storia contemporanea, Isral, n. 73

Trasformazioni

Sono evidenti nell’ultimo secolo i cambiamenti epocali dell’agricoltura tradizionale, causati dalle culture intensive indotte dal mercato globale. Allo stato attuale il problema più grave è rappresentato dalla crisi climatica, indotta all’inquinamento chimico e umano. L’aumento delle temperature e la siccità, oltre allo sfruttamento intensivo della terra, provocano gravi criticità alla stessa permanenza di vigneti in collina, a colture cerealicole e allevamenti, mentre risulta drasticamente ridotta quella biodiversità di vigne, campi, boschi, che ha sempre caratterizzato il paesaggio agrario monferrino.

Le trasformazioni dell’agricoltura tradizionale sono iniziate negli anni Cinquanta con l’esodo dei giovani dalle campagne verso la Fiat di Torino, che assumeva molta manodopera e creava indotti per nuove occupazioni.  Quei giovani contadini, diventati operai, tornavano a fine settimana ad aiutare la famiglia a lavorare la proprietà, rimanendo legati alle tradizioni, ma i loro figli erano già cittadini e i nonni non potevano più raccontare le storie ai nipoti e tramandare memoria. I paesi perdevano via via, insieme alle energie umane, anche le ritualità della comunità.

Ma vi sono stati altri fattori di cambiamento della società rurale. Il Piano verde, approvato nel 1961 a sostegno dell’ammodernamento dell’agricoltura, ha promosso investimenti per il miglioramento e la riconversione delle coltivazioni, la meccanizzazione e l’edilizia rurale. Con i contributi le famiglie contadine hanno acquistato moto-zappatori, dotato le cascine di servizi igienici interni, ristrutturato le stalle a garage e così via, modificando le vecchie abitudini dei paesani. Nel fondovalle dei paesi, a fianco di capannoni edificati per attività artigianali e piccole imprese, giovani coppie hanno costruito villette “moderne” con i tetti sbalzati, costituendo nuovi agglomerati.

Un profondo cambiamento sociale e culturale è stato indotto dall’istituzione della scuola media dell’obbligo nel 1963, avendo fornito una migliore istruzione ai figli dei contadini e soprattutto avendo favorito le femmine nella prosecuzione degli studi come primo passo di emancipazione.

Le ragazze, attratte dalla vita cittadina, hanno accelerato, quindi, il cambiamento rifiutando di sposare un contadino, e sono state sostituite da giovani meridionali, che hanno accettato i matrimoni combinati con i contadini piemontesi, sottraendosi a condizioni arretrate. Sono loro, come ha annotato Nuto Revelli ne L’anello forte, che hanno portato nuova energia nelle famiglie monferrine.

In quel decennio del ‘900 è, dunque, avvenuta una trasformazione sociale repentina della civiltà contadina millenaria, un universo culturale complesso, in sé concluso, è stato investito dalla modernizzazione. Mentre le parole del dialetto venivano a perdere la loro vitalità, si andavano esaurendo anche la stretta interdipendenza tra comunità e terra coltivata, la sacralità della tradizione e l’autorevolezza della memoria nell’indirizzare presente e futuro.

Nel corso degli anni ‘70-’80 del secolo scorso giovani ricercatori e antropologi, assumendo la consapevolezza del cambiamento epocale in atto e con l’intento di mantenere traccia culturale della società contadina, hanno iniziato a raccogliere testimonianze, memorie, canti popolari e documentazione di cultura materiale, a pubblicare ricerche, a progettare musei etnografici e centri di documentazione, a proporre progetti di rifunzionalizzazione delle tradizioni.  

 

Lo sviluppo dell’economia agricola

Lo scandalo del vino al metanolo del 1986 ha imposto un ripensamento radicale dei metodi di produzione e di vinificazione: per reagire alla crisi, i viticoltori, che fino a quel momento basavano il loro reddito sulla quantità, sono orientati, anche dalla politica regionale, a investire sulla qualità del prodotto, che ha avviato un nuovo mercato nazionale e internazionale del vino a denominazione controllata, con qualificazione delle aziende e buoni introiti economici.

Negli anni più recenti le applicazioni delle ricerche scientifiche e di strumentazioni tecnologiche sono state orientate a coltivazioni intensive e specializzate, trasformando il paesaggio agrario tradizionale. Sono stati coltivati i terreni meglio esposti, mentre piccoli appezzamenti di terreno, ormai privati di forza lavora giovane, sono accorpati ad aziende più grandi, adeguate alle leggi del mercato, e vigne impiantate in zone più impervie sono sostituite da noccioleti e  si allargano boschi cedui, lasciati senza manutenzione.

I vigneti sono diventati pettinati “quadri d’autore”, ma  i piccoli paesi hanno perso, insieme alla consistenza demografica, le scuole, i servizi commerciali e i laboratori artigianali collegati all’agricoltura. E’ venuta a mancare anche la manutenzione poderale del territorio “fragile”, mentre, con le risorse per la trasformazione ecologica, si stanno estendendo gli impianti fotovoltaici su terreni produttivi con un forte impatto paesaggistico.

Oggi la comunità non ha più occasioni di svolgere lavori in comune e di scambiarsi i racconti e le notizie, di mantenere la tradizione delle parole. Venendo a mancare i luoghi e le condizioni tradizionali della memoria orale, la narrazione tra le generazioni si è, inevitabilmente, interrotta. Le molte case vuote hanno dimenticato le storie delle famiglie che le hanno abitate.

In questa rapida trasformazione, accelerata dalle regole del mercato internazionale e dai cambiamenti climatici, la sapienza del padre non serve più al figlio, che è preparato tecnologicamente e non fa più ricorso alla modalità tradizionale dei lavori.  Nel contempo è in prevalenza manodopera straniera a eseguire i lavori agricoli con contratti stagionali e non sempre regolari.

 

Spaesati

Nei piccoli paesi collinari, meno famosi di quelli langaroli, si può misurare più che il flusso turistico o l’acquisto di case da parte degli stranieri, elementi che pure sono presenti e qualificanti, la scomparsa di luoghi di aggregazione sociale. I paesi sono stati impoveriti di servizi e trasporti, e, dopo l’accorpamento delle parrocchie, è venuta a mancare anche la presenza del prete. Si è, dunque, interrotta la trasmissione orale della memoria storica delle radici contadine. Oggi molte case sono disabitate e molti vecchi vivono soli. Non bastano i toponimi tradizionali a mantenere la storia del territorio. Gli abitanti, senza comunità, sono “spaesati”.

Se si riduce la popolazione, viene meno anche la salvaguardia di quel paesaggio plasmato dal lavoro dei contadini, perché su quelle colline, patrimonio dell’Umanità, terra e comunità umana sono stati per secoli in simbiosi armonica, come attesta la stessa radice dei vocaboli “paese” e “paesaggio”. Se manca l’uno viene a deperire anche l’altro.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza stanzia fondi per dotare di servizi i piccoli borghi e incentiva piani territoriali di riqualificazione del paesaggio e dell’ambiente, un’occasione importante per rivitalizzare aree periferiche, ma i piccoli comuni non hanno gli strumenti per accedere ai finanaziamenti.

La gestione del Pnrr dovrebbe essere orientata all’attuazione del comma dell’art.9 della Costituzione, inserito di recente, che precisa il principio di tutela dell'ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, del benessere degli animali nell'interesse delle future generazioni.  E va menzionato anche l'articolo 41, che dispone che l'iniziativa economica privata non deve svolgersi provocando danno alla salute e all'ambiente. Queste norme costituzionali sembrano riprendere i comportamenti di vita e di lavoro dei contadini, che sapevano, per esperienza atavica, che esiste una correlazione stretta e necessaria tra umanità e natura.

 

La campagna

Per identificare il paesaggio, l’ambiente e la natura, i contadini usavano un solo termine: “campagna”, che indicava sia il luogo di lavoro che il raccolto annuale. La parola campagna (lat.“campania”) comincia ad essere usata al tempo dei Longobardi. Nel periodo feudale indicava un terreno aperto di pianura o bassa collina, coltivato o a bosco, costellato da case sparse, isolato dal centro urbano. Gli abitanti producevano per l’autoconsumo e la terra era l’unico scenario esistenziale, mentre l’isolamento del piccolo borgo era la difesa da incursioni esterne.

La piccola proprietà faceva perno sulla famiglia come unitàproduttiva.Tutti, dalla più tenera età alla vecchiaia, erano impegnati nei lavori, con mansioni diverse di uomini, donne e bambini. La vigna, al contrario di altri coltivi, ha, infatti, bisogno di cura tutto l’anno e esige il costante intervento umano sulla terra come un patto reciproco di sopravvivenza, interrotto a volte da una calamità atmosferica. Ma già il giorno dopo della grandinata, i contadini tornavano a lavorare per rimarginare le ferite delle viti, dimostrando una grande capacità di adattamento alle trasformazioni del contesto naturale. I cicli naturali e i cicli umani erano in sintonia. Quell’insegnamento acquista nuova importanza nei necessari processi di resilienza e di transizione ecologica dei nostri tempi.

Nella piccola proprietà le coltivazioni erano funzionali a un’economia di autoconsumo dei prodotti, dall’uva al grano, dal mais alla legna da ardere, dagli alberi da frutto agli ortaggi e all’allevamento di polli e conigli con il bue e la mucca nella stalla e il letame era il concime naturale delle vigne.

I lavori ciclici scandivano il tempo degli avvenimenti delle famiglie e della comunità. Il calendario delle feste era condizionato dai tempi di lavoro. I matrimoni si celebravano durante l’inverno, quando la campagna riposava sotto la neve, le feste patronali erano fissate in piena estate, prima della vendemmia. Le date religiose, feste dell’intera comunità, erano occasioni di incontri parentali e di racconti di memorie familiari e di guerre.

Il susseguirsi delle stagioni richiedeva ai contadini di avere pazienza perchè i cicli si compissero con l’aiuto del loro lavoro, quella pazienza che passava da una generazione all’altra, come il legame con la terra e il non rassegnarsi davanti ai disastri atmosferici. Non c’era altro da fare che stringere la cinghia e tornare a lavorare. Quel senso del tempo, nel sistema ciclico della natura, congiungeva l’esperienza del passato con la previsione del futuro.

Oggi l’agricoltura di precisione ha sostituito l’almanacco delle fasi lunari, ma “campagna”, termine del passato, può ancora valere nella nuova dimensione ecologica.

 

Narrazione contadina e saper fare

Le narrazioni contadine si fondevano con le stagioni in un unico paesaggio umano e naturale, secondo una tradizione orale, che risale alle epoche arcaiche delle leggende degli eroi e degli dei. I contadini raccontavano le condizioni di uomini e di donne, che sapevano trasformare i terreni con il loro lavoro e renderli fertili e abitabili.

La cultura orale contadina conformava il tessuto connettivo e identitario della famiglia e del paese. La memoria della famiglia si incarnava nelle generazioni attraverso i nomi degli avi ai discendenti: il nome del nonno non si spegneva con la sua morte perché veniva portato dal nipote maschio e continuava a contrassegnare la famiglia di appartenenza.

Era una memoria orale, ma anche materiale, di ruoli parentali, di oggetti della casa e del lavoro. Le case contadine erano spoglie di arredi, ma dense di memorie conservate.

I luoghi e le occasioni del narrare erano le riunioni di famiglia, le osterie e le veglie nelle stalle d’inverno, dove, a volte, un cantastorie leggeva da Il libro del comando episodi tragici di magia nera e profezie, che le donne tentavano di esorcizzare con la recita del rosario.

La narrazione contadina era collettiva, cioè qualcuno raccontava e altri, che sapevano ascoltare con intenzione, intervenivano nel racconto con integrazioni e altri particolari. Quindi la memoria entrava nella biografia di tutti e veniva trasmessa da una generazione all’altra. Quando una voce spariva ne subentrava un’altra per continuare la narrazione corale.

I contadini, per molti secoli analfabeti, insegnavano ai loro figli a coltivare la terra con i gesti del lavoro, le date dei lavori stagionali segnate sull’almanacco, i riti e le tradizioni, precetti morali e proverbi che indicavano comportamenti degli umani e della natura. Così trasmettevano insieme il saper fare e la memoria, costruendo via via anche nuove tradizioni. Il loro sapere era saggezza di operare e giudicare.

La lingua della narrazione era il dialetto con particolarità linguistiche e accenti che si differenziavano anche tra paesi limitrofi e che individuavano l’appartenenza identitaria dei paesani. Il dialetto riproduceva cultura, rituali e comportamenti e aveva espressioni molto efficaci nell’individuare le situazioni abituali con massime funzionali ai comportamenti individuali e collettivi, riflettendo

le condizioni di vita e la relazione con la natura. I vocaboli facevano riferimento alla concretezza di vita e di lavoro e mancavano quelli descrittivi dei sentimenti. La massima effusione dialettale riguardava il “voler bene”, non l’amore, mentre “maleur” definiva dolore e malattia.

 

Gli scrittori

La trasposizione delle cadenze del dialetto nella lingua italiana è stata un’operazione letteraria di

scrittori della seconda metà del ‘900, legati affettivamente alle loro origini in Langa e Monferrato. Hanno interpretato letterariamente il racconto orale di storie, leggende, testimonianze dell’antica civiltà contadina intessendole con la grande storia, hanno tratto motivi ispiratori nei giacimenti secolari delle memorie contadine, tramandate da una generazione all’altra.

I loro libri rappresentano le fonti simboliche del paesaggio rurale per vedere, comprendere, interpretare il genius loci della terra e della gente. Le Langhe e il Monferrato hanno configurato la geografia interiore degli scrittori Cesare Pavese, Davide Lajolo e Beppe Fenoglio e percorrere i loro luoghi letterari significa fare un viaggio nell’immaginario delle radici di quel territorio e, nel contempo, leggervi l’evolversi di tutte le trasformazioni successive.

Sono stati loro gli artefici della trasposizione del mondo contadino in romanzi con un volo letterario, che spicca dall’oralità.  Cogliendo il respiro arcano della terra come stato d’animo permanente dell’umanità, hanno costruito personaggi universali, hanno trasformato il paesaggio rurale nel teatro di storie d’amore e di odio, di scommesse sulla vita e sulla morte, di sentimenti e giochi di emozioni.E, nel contempo, sono diventati i custodi/testimoni del dissolversi della millenaria cultura contadina.

Cesare Pavese ha scritto La luna e i falò nel 1950, mitizzando la cultura contadina, che lui percepiva ancora come eterna. Ha costruito il romanzo ascoltando le storie di Santo Stefano Belbo dall’amico Pinolo Scaglione, reso nel personaggio letterario di Nuto e ha plasmato la forma espressiva della sua narrazione, contaminando le cadenze del dialetto con l’antica lingua dei miti greci e la sintassi narrativa degli scrittori americani contemporanei. Ha assunto le Langhe come scenario delle energie originarie del destino immutabile della natura.

Per Beppe Fenoglio la Langa è Madre Terra, sensuale e ancestrale, il luogo atavico dell’infinito, immutabile sotto la pioggia e la neve, la nebbia e il soffocante sole agostano. Madre Langa rimane inespugnabile anche nello schianto della guerra civile e protegge i suoi figli partigiani fino alla vittoria della libertà. E’ teatro di narrazione epica del destino irreversibile di uomini e donne, rivissuto attraverso le scene del teatro elisabettiano di Marlowe e Shakespeare, e l’inglese classico modella il linguaggio letterario aspro e conciso come il dialetto.

Davide Lajolo narra il suo paese contadino come un microcosmo, che contiene il mondo. La passeggiata in campagna è per lui un laboratorio sentimentaledi scrittura, un procedimento di ricerca dell’anima del luogo natale. I vecchi, che incontra nelle vigne, gli raccontano la loro vita e il loro lavoro, affidando a lui, che sa scrivere, la memoria di ciò che hanno vissuto di bene e di male.

All’inizio degli anni ’70 del ‘900, Lajolo è consapevole che quella visione del mondo sta tramontando e, attraverso le interviste e i racconti, intende mantenere la cultura della narrazione orale.

Anche Nuto Revelli è consapevole che l’industrializzazione della pianura cuneese degli anni Sessanta, che ha comportato lo spopolamento dei paesi di montagna e di collina, sta provocando la trasformazione epocale della società tradizionale. E da scrittore che ha raccolto le memorie di guerra sue e dei soldati, avverte la necessità di testimoniare la memoria dei “vinti” e delle donne, riconoscendo loro il ruolo di  “anello forte” della famiglia. Dalle voci dei testimoni contadini emergono la fatica del lavoro e la durezza delle condizioni di vita e, anche, i costi umani della trasformazione economica e sociale in atto.

 

Patrimonio dell’Umanità

La dichiarazione UNESCO del 2014 di riconoscimento dei paesaggi vitivinicoli di Langhe Monferrato Roero patrimonio dell’Umanità descrive “il panorama di colline ben coltivate in cui sono riconoscibili le antiche divisioni di proprietà con costruzioni che caratterizzano la visuale spaziale: villaggi sulla cima delle colline, castelli, chiese romaniche, cascinali, ciabots, cantine, stabilimenti vinicoli e luoghi di distribuzione commerciale di vini nei paesi ai margini delle vigne. Le diverse caratteristiche architettoniche e storiche degli elementi legati alla produzione vinicola, che rievocano l’arte autentica e antica di fare il vino, si coniugano armonicamente con le qualità estetiche dei paesaggi che rappresentano un archetipo delle vigne europee”.

Il paesaggio antropizzato è considerato come sistema armonicamente composito di produzione economica, complessità sociale e percezione sentimentale. Il riconoscimento UNESCO sottolinea, dunque, il valore dei paesaggi nella sintesi felice e armonica del legame reciproco tra identità contadina e natura, che, purtroppo, oggi è in parte compromessa.

 

Lo sviluppo turistico

La certificazione UNESCO ha favorito lo sviluppo del turismo internazionale in Langhe e Monferrato. I primi sono stati tedeschi e svizzeri ad apprezzare la cucina e i vini, ma nell’ultimo periodo sono i nordeuropei, che, oltre all’enogastronomia, cercano luoghi naturali per escursioni e residenze, e gli stessi italiani, dopo la pandemia, hanno ricercato un contatto con luoghi naturali. La campagna offre, infatti, diverse opportunità di turismo naturalistico, sportivo, enogastronomico e di compartecipazione alle attività agricole, come hanno predisposto le aziende agricole multifunzionali.

A quale prezzo questo successo? La trasformazione industrializzata della produzione vinicola ha inciso sulla biodiversità tipica del territorio e anche sulla conformazione dei paesi, che danno il nome ai vini più noti da Barolo a Barbaresco, come borghi a misura di turisti, senza più i connotati tipici della comunità contadina. Installazioni e decorazioni murarie di street art propongono posticce ricostruzioni di vita campagnola da villaggio di vacanze. Le stesse feste tradizionali sono trasformate in “eventi” per i turisti con l’evidente manipolazione dei significati originari, mentre altri piccoli paesi stanno subendo lo spopolamento. Floride aziende di produttori e produttrici sono vendute a holding del vino, stranieri stanno comprando case e terre.

L’indotto turistico sta sfruttando vino e territorio come status symbol e bene di consumo, veicolati da chef stellati e vignaioli famosi. Come dice Carlin Petrini, il successo turistico va a scapito della storia dei luoghi, storia di fatica e di sapienza contadina, e porta all’omologazione consumistica. Petrini ha lanciato una campagna per informare i giovani sulla storia contadina millenaria al fine di garantire servizi essenziali per la qualità della vita agli abitanti dei paesi arroccati sulle colline.  La trasformazione socio-economica è ormai avanzata, mentre andrebbe ripreso il legame tra “cultura” e “coltura” nella loro etimologia dal verbo latino “colere”, coltivare e far crescere, significato che si ritrova anche nel verbo “fondare” nel significato di dissodare un campo o impiantare una vigna. Plinio definisce la vigna simbolo di lavoro e di nobiltà del coltivato, opera d’arte “fondata” dal lavoro umano, che racchiude in sé bellezza e produttività economica e l’arcaico legame dei contadini con il sacro naturale e divino.

Riallacciandosi alla memoria contadina andrebbero oggi trasposti i valori simbolici in nuove modalità di comunicazione non solo per ivisitatori, ma per gli stessi abitanti.  Sarebbe auspicabile, infatti, che i giovani agricoltori ristabilissero la relazione armonicatra lavoro umano e la terra, anche attraverso la narrazione dei luoghi, diventassero cioè dei nuovi narratori di paesaggio, utilizzando le forme attuali di linguaggio e di comunicazioneper non essere “spaesati” e promuovere forme di turismo esperienziale.In questa direzione l’Associazione culturale Davide Lajolo, in collaborazione con l’Associazione per il patrimonio dei Paesaggi vitivinicoli UNESCO, sta promuovendo, con progetti elaborati con istituti superiori, esperienze di formazione di “Nuovi narratori del paesaggio” rivolto a studenti, artisti, operatori turistici, imprenditori agricoli.

Le prospettive di fruizione esperienziale del paesaggio potrebbero essere proposte con il potenziamento delle strutture, dei servizi, e supportate da un’efficace capacità di narrazione di luoghi, sapori, odori della terra e suoni del bosco, delle cadenze delle stagioni e dei lavori nella vigna.

Il che rimanda, insieme al sistema di agricoltura multifunzionale, a offerte turistiche in grado di mantenere i segni della memoria dei luoghi con attrattive e servizi adeguati.Sta emergendo anche l’esigenza culturale e emotiva di ripensare e rivitalizzare le tradizioni, che non sono mai statiche, ma si trasformano nel tempo. Nei paesi le tradizioni, nel corso della storia, sono, infatti, sempre state “meticce”, mescolanza di genti diverse e oggi sono molti i lavoratori stranieri nelle vigne e nei campi, che hanno sostituito l’unità produttiva della famiglia.

Le istituzioni pubbliche, dal governo alla Regione ai comuni, dovrebbero esercitare una continua e attenta tutela del paesaggio come bene comune con l’attiva partecipazione dei produttori. E’ necessario programmare infrastrutture (anche informatiche) e forme di fruizione del territorio rispettose della sostenibilità ed è fondamentale l’apporto di giovani energie di imprenditori agricoli, preparati a gestire il territorio nell’ottica del necessario bilanciamento di conservazione e innovazione.

 

Le nuove direttive europee e regionali

La programmazione della Regione Piemonte 2023-2027, in attuazione del Piano di Sviluppo rurale deliberato dalla UE, sembra ricalcare il proverbio, ripetuto spesso da mia nonna che non conosceva le teorie dell’eterno ritorno, ma si basava sull’esperienza passata: “Tutto ciò che è stato torna”.

Per rendere le aziende piemontesi più competitive e sostenibili vengono, infatti, previsti interventi per salvaguardare i livelli di produzione minacciati dal cambiamento climatico, in particolare la siccità, riattivando antiche pratiche sulla tutela della risorsa idrica e della produzione di energia da fonti rinnovabili, con particolare riferimento all’agricoltura integrata, biologica e di precisione. L’agricoltura intensiva, contraddistinta dal consumo di risorse, non è, quindi, più compatibile con l’attuale processo di cambiamento climatico e di previsioni di sviluppo.

Inoltre la mancanza di manodopera locale sostituita da quella straniera (anch’essa in crisi per la limitazione dei flussi migratori regolari) propone urgentemente la formazione e la qualificazione di energie giovani in agricoltura con una redditività adeguata.

La civiltà contadina e la sua cultura sono nel passato. E’ cambiata la società rurale insieme all’economia, è cambiato il paesaggio agrario, ma dovrebbe essere conservata, comunque, la bellezza dell’armonia tra uomo e natura, perché necessaria fonte di benessere per le persone e di sviluppo agro-economico.   Si potrebbe, quindi, ipotizzare l’operazione culturale di riscoprire la sapienza contadina per contenere lo spaesamento indotto dalla globalizzazione come una strategia di sopravvivenza che dal passato alimenti un presente sempre più precario e incerto per avviare processi futuri.

Chissà se il vecchio proverbio potrà definire la rivitalizzazione ecologica delle nuove identità della comunità e del paesaggio agrario?

(Quaderno di storia contemporanea, Isral, n. 73)