Associazione Davide Lajolo Odv

News

19/05/2025

Introduzione di Carlo Prosperi a "Il Voltagabbana"

Riedizione Editrice Tipografia Baima-Ronchetti, Castellamonte 2025.

 «Solo gli stolti e i morti non cambiano mai idea» diceva il letterato statunitense James Russell Lowell. Una sincera resipiscenza, quando non porti al ravvedimento, si risolve in inerte e sconsolata rassegnazione. Non è stato questo il caso di Davide Lajolo. Chi, come me, ha avuto modo di conoscerlo, al vedere un tale fusto d’uomo, di pasta terragna, langarola, aveva l’impressione di un personaggio granitico ed austero, che incuteva soggezione, ma poi, a sentirlo discutere con amici di vecchia data quali, ad esempio, Marcello Venturi e Nuto Revelli, se ne coglieva l’umana cordialità e insieme la sofferta problematicità propria di chi, dopo la tragedia cecoslovacca, per la seconda volta aveva provato quella che Lucio Tortorella, nel commemorarlo a cent’anni dalla sua nascita, ha definito «la ferita del disinganno». Il suo travaglio interiore era, in realtà, ben più antico, almeno a dar fede a quanto nel romanzo Sdraiati sulla linea ne disse Venturi, che già all’epoca dei fatti d’Ungheria prese le distanze dal Pci. Più volte egli mi raccontò che Ulisse - così lo ricordava, col suo nome di partigiano - lo aveva sempre trattato come un figlio, anzi fu uno dei pochi che ne comprese e sotto sotto ne condivise i dubbi e le perplessità. Anche se, a differenza di lui, continuò a credere nella possibilità di rinnovare il partito dall’interno.

Ora, rileggendo a distanza di tempo, in occasione di questa ennesima ristampa, Il “voltagabbana” di Davide Lajolo, non si può fare a meno di apprezzarne la buona fede, la «spietata sincerità» di cui lo stesso Autore parla nell’“Avvertenza” e che è, paradossalmente, avvalorata proprio da qualche traccia di schematismo ideologico (marxista e classista), inavvertitamente retorica, qua e là affiorante. D’altra parte, il libro ha i caratteri ossimorici del «romanzo vero», nel senso che, pur basandosi su fatti realmente accaduti, non si affida tanto all’acribia dello storico quanto alla memoria del protagonista, alla sua vena affabulatrice, che non disdegna di arricchire e insaporire il racconto con inserti ora poetici, ora diaristici, ora anche epistolari, che più ancora della documentazione burocratica valgono a trasmetterci la verità dei fatti, a comunicarci le motivazioni personali, i sentimenti e i risentimenti sottesi e connessi all’agire umano. È qui evidente la suggestione della letteratura, a cominciare dalla lezione, non solo manzoniana, della poesia che completa (e illumina) la storia.

E non intendiamo riferirci soltanto alle liriche, in versi liberi, di stampo ungarettiano, cui Lajolo, nei momenti di più alta tensione o di più viva commozione, ricorre per suggellarne quasi epigraficamente il pathos, si tratti di cogliere e di fissare plasticamente gli orrori della guerra, di evocare certi momenti di drammatica sospensione o talune armosfere di intimità familiare. Memorabili i versi dedicati alla figlia Laurana, «nata d’autunno a fare primavera». La poesia è il suo hortus conclusus, il cantuccio pascoliano che gli consente di preservare la propria umanità dalle minacce esterne. Ma ci sono pure i ricordi del piccolo mondo paesano di colline, vigne e strade fangose, non privi di suggestioni tra pavesiane e fenogliane, quali il culto delle radici e la sinistra incombenza della malora. Tra gli echi letterari come non rammentare inoltre la fuga del giovane protagonista dal collegio e la “canzone” delle tasse (e delle cartoline precetto) che assillano i poveri contadini di Vinchio? Se la prima rimanda all’odissea notturna di Renzo, tra campi e sodaglie, verso l’Adda, dove similmente il paesaggio si fa stato d’animo, la seconda richiama la percezione straniata che gli abitanti di Aci Trezza, nei Malavoglia, hanno del governo “piemontese” che li tartassa.

Ma dove l’intervento demiurgico del romanziere è più evidente è nel mettere a confronto la propria autobiografia con quella di Francesco Scotti, un coetaneo che aveva combattutto la guerra civile spagnola dalla sponda opposta: quella repubblicana. Le loro storie procedono in parallelo finché, a sorpresa, non convergono, dopo l’8 settembre, nella Resistenza. Non si tratta, però, di un escamotage narrativo, quantunque l’artificio retorico ricordi la trovata morotea delle “convergenze parallele”. No, qui, più semplicemente, Lajolo ricusa ogni attenuante di comodo. Non si fa sconti. Non vuole cioè incorrere nell’errore - commesso, tra gli altri, da autori come Ruggero Zangrandi e Carlo Mazzantini - di generalizzare un’esperienza che fu di tanti, anzi della maggioranza dei giovani della sua generazione. Perché qualche notevole eccezione ci fu, ci fu chi seppe dire no al fascismo fin dall’inizio, chi non si lasciò incantare dalla sua retorica magniloquente, e nemmneno dalle sue premesse (o promesse) rivoluzionarie.

Il fatto è che fin dalle origini il fascismo, figlio - come tutti oggi riconoscono - della Grande Guerra, fu anche una rivolta generazionale, promossa dai ceti medi in ascesa contro la politica fallimentare della vecchia classe dirigente liberale. E fu soprattutto un equivoco di fondo, in quanto vantava legami con il sindacalismo rivoluzionario e, almeno nella sua versione sansepolcrista, si professò come “sociale”, determinato cioè ad andare «verso il popolo». Salvo venire poi imbrigliato e strumentalizzato dagli agrari e dagli industriali. Sopravvisse tuttavia una nutrita frangia, soprattutto di giovani, che continuava a sperare nell’avvento di «una società nuova» e propugnava «un fascismo rivendicativo», in grado di imporre la giustizia, contro i padroni dell’economia e i profittatori di regime. Fu appunto questo  «fascismo eccitante», tendenzialmente di sinistra, a sedurre il giovane Lajolo, animato, al pari di molti suoi coetanei, dalla speranza di«schiodare la rivoluzione dalla palude del burocratismo e del compromesso».

Quando poi, deluso dalla sua mancata partecipazione alla guerra d’Africa, fu surrettiziamente inviato in Spagna a supportare i falangisti in una “sporca guerra” dalle dubbie motivazioni, le perplessità cominciarono ad assalirlo, ma l’illusione di «cambiare le cose» fu riattizzata dalla nomina di Ettore Muti a segretario generale del Pnf al posto di Starace. Si passava intanto da una guerra all’altra, mentre nel Paese montava lo scontento tra i poveri e i lavoratori, sui quali ricadevano, al solito, i costi maggiori. E la rivoluzione tanto attesa seguitava a restare lettera morta. Via via che la battaglia per imporre un rinnovamento sociale si faceva sempre più disperata, paradossalmente i reduci dalla guerra, «per pretendere dal fascismo quello che non poteva dare», rischiarono nella loro insofferenza di diventare fanatici paladini di un fascismo immaginario.

A riportare Laiolo alla realtà sarà il ritorno a Vinchio, dopo l’8 settembre. D’altra parte, solo qui, nel suo «paese maledettamente amato», poteva avvenire la “conversione” che, sciogliendo le contraddizioni politiche, gli avrebbe garantito una coerenza morale di fondo. Per fare questo era necessario che egli si assoggettasse ironicamente all’imputazione di “voltagabbana”, sì da farla propria e da esibirla come simbolo distintivo di un percorso virtuoso. Solo così poteva sperare di realizzare davvero i propositi rivoluzionari che da sempre lo avevano animato. È quanto gli fa capire lo zio della moglie, un ex-ferroviere sfollato, anni prima cacciato dal lavoro perché comunista: dal punto di vista narratologico è lui l’aiutante, il savio mentore che lo instraderà sulla via del riscatto. Non deve sentirsi un traditore - gli dice - perché in realtà è stato lui ad essere tradito, da Mussolini e da quanti lo hanno assecondato nel suo tristo inganno. Sono loro i veri traditori, i nemici contro cui deve rivalersi. È sempre lo zio a dissuaderlo dal proposito di espiare gli errori compiuti, cercando la morte sul fronte: «La morte non si cerca - lo ammonisce -, la morte non cancella gli errori, cancella soltanto la vita […]. Bisogna vivere per costruire una società di uomini liberi e eguali».  La spinta decisiva al “cambio di gabbana” gli viene poi dai ragazzi del paese renitenti alla leva, che sentono il bisogno della sua esperienza di capitano. È allora che Davide Lajolo diventa Ulisse e, tra peripezie di vario genere, dopo aver superato le diffidenze di altri partigiani, li guiderà in un’aspra contesa contro i nazifascisti, fino alla Liberazione.

Sono vicende e circostanze come queste, casuali o provvidenziali che siano, che inducono a condividere la considerazione enunciata da Italo Calvino in limine al Sentiero dei nidi di ragno: «Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutto a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile». A volte basta davvero « un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte». Proprio per questo il libro di Lajolo può dirsi il romanzo di una generazione, quella cresciuta durante il fascismo, chiamata, come Ercole al bivio, a scelte difficili, non scontate e destinate, comunque, a lasciare stimmate indelebili.

                                                                                                                        Carlo Prosperi

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