10/02/2015
Ragazze Partigiane - I sentimenti di due “ribelli”
di Laurana Lajolo
I dati ufficiali, ma in realtà solo approssimativi, della partecipazione della donne alla Resistenza sono questi:
35.000 le donne riconosciute partigiane combattenti
70.000 hanno fatto parte dei Gruppi di difesa delle donne
Circa 4653 arrestate, di cui molte torturate, 2750 deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate, 1750 ferite, 1070 morte in combattimento. Di tutte queste soltanto 19 vennero insignite di medaglia d’oro dopo la Liberazione, 17 di medaglia d’argento.
Alcune giovani donne che non hanno nessun obbligo di partecipare alla guerra, si sono impegnate nella quasi totalità per i legami affettivi con il padre, il marito, il fratello, il fidanzato nella Resistenza. Hanno cercato inizialmente di aiutare i loro congiunti, ma poi hanno protetto tutta la loro comunità, rischiando la morte e, a volte, trovandola.
Subito dopo l’armistizio sono le madri di famiglia le prime a dare protezione agli sbandati nelle loro case con forme di resistenza civile. Per le ragazze la lotta di liberazione rappresenta una rottura in pubblico, anche se non pienamente consapevole, nei confronti del conformismo sociale, della tradizione millenaria del ruolo femminile, dando inizio all’affermazione dei diritti delle donne, strada lunga ma, da quel momento, mai interrotta.
La prima scelta delle ragazze “ribelli” è un atto morale, per senso di responsabilità, istintivo e non per coscienza politica, e di impegno di protezione verso gli altri.
Hanno dimostrato grandi qualità nel tenere il segreto anche sotto la tortura legata all’oltraggio sessuale, nel non avere paura di fronte al rischio totale. Se anche le singole sono prive di consapevolezza del valore storico della scelta, nell’insieme compongono un movimento di cambiamento collettivo, congiungendo singole azioni e idee.
Dopo l’entusiasmo della liberazione vengono i giorni della normalizzazione. Molte ragazze rientrano nella quotidianità della famiglia, si sposano spesso con un partigiano conosciuto nella lotta. Rimane in tutte loro la orgoglio per quei mesi alla macchia e tanta speranza nel futuro. Spesso sono deluse dagli avvenimenti, ma rimangono partigiane e pronte a partecipare a tutte le manifestazioni a difesa della democrazia e della pace.
I legami partigiani sono indissolubili, tra i partigiani e le staffette, perché come dice Fenoglio “Partigiano è nome assoluto come poeta, e partigiano si rimane infallentemente tutta la vita”. Continuano la solidarietà e l’amicizia in nome dei valori per cui hanno combattuto, perché è anche il modo di ricordare e onorare i tanti giovani che hanno sofferto e sono morti.
Nella maggior parte le ragazze ribelli, dopo la Resistenza, rientrano nella quotidianità privata delle donne, ma trasmettono la loro esperienza di rottura nell’educazione delle figlie dando avvio alle forme di emancipazione e poi di liberazione della donna.
Le donne hanno una diversa sensibilità nel ricordare la Resistenza e la guerra rispetto ai racconti dei partigiani. Gli uomini raccontano con molti dettagli le battaglie, gli agguati, le vittorie e i combattimenti perduti, le ragazze, nelle loro testimonianze e nei loro scritti, ricordano facce, caratteri, atmosfere, situazioni, gesti, luoghi, sentimenti, che spesso non hanno a che fare con la guerra. Esprimono attenzione verso gli altri e anche verse se stesse e in questo modo hanno maturato la loro libertà. Una libertà personale e individuale prima ancora che politica e sociale.
Con queste premesse, vi propongo, attraverso la lettura di memorie di due ragazze partigiane Marisa Ombra e Lidia Beccaria, il racconto dei loro sentimenti. Ho cercato alcune parole chiave della loro esperienza resistenziale e della loro esistenza: ribellione e trasgressione nel senso di rifiutare l’indifferenza, libertà al femminile, responsabilità, solidarietà, rispetto tra i sessi e parità, maturazione psicologica e politica, uguaglianza, cultura della sopravvivenza, capacità di far fronte al pericolo.
Le due “ribelli” hanno la sensazione di stare vivendo una situazione assolutamente nuova, dove tutto è da inventare. Descrivono il paesaggio, gli atteggiamenti dei compagni e della compagne, parlano di sogni e di solitudine, di creatività e di fantasia, che le legano alla vita anche in condizioni estreme.
La storia di Marisa Ombra “Il gusto della libertà”
Marisa Ombra non ha ancora diciotto anni quando inizia la sua vita in clandestinità e diventa staffetta partigiana, dopo che il padre, operaio comunista arrestato per aver organizzato uno sciopero, riesce ad evadere dal carcere di Asti con l’aiuto di un gruppo di partigiani. A quel punto la moglie e le due figlie, che lo aiutano a gestire il centro stampa del partito clandestino, devono allontanarsi da casa. La madre e la sorella Pini vanno nelle Langhe a continuare il lavoro della stampa partigiana, mentre Marisa diventa staffetta con il nome di battaglia Lilia, e partecipa come segretaria alla Giunta popolare di governo della zona liberata dell’Alto Monferrato. Sulla sua esperienza partigiana Marisa ha scritto due libri La bella politica[1] e Libere sempre[2].
La staffetta è un lavoro solitario, dove non si può chiedere consiglio a nessuno. Marisa scrive: “Non hai esperienze alle spalle, tutto è nuovo e misterioso”. (..). “C’è la paura di sbagliare. Ma c’è anche un sentimento che sarebbe esagerato definire di “potenza”. Di sicuro è fortissima la coscienza che tutto dipenda da te. Di colpo ti senti grande. Nel senso di adulta. In qualche modo al centro. E responsabile. Responsabile delle tue scelte e dei tuoi atti. Responsabile della vita degli altri[3].
E accomuna il senso di responsabilità alla libertà: “Questo sentimento si accompagnava a una sensazione di straordinaria libertà. (…) Una libertà senza aggettivi, esaltata dal paesaggio in cui mi trovavo e che per la prima volta vedevo con occhi nuovi. Quei prati, quelle colline morbide con le vigne disegnate come quadri, quei boschi erano il nuovo mondo al quale sarei appartenuta”[4]. Marisa riprende il tema della libertà nel secondo libro: “A me è capitato di sentirmi straordinariamente libera in momenti e per motivi che in sé non avevano niente a che fare con l’eroismo. Mi faceva sentire libera, per esempio, il fatto di camminare lungo i crinali e i sentieri delle Langhe. (…) Se ripenso a quei momenti non mi viene in mente il pericolo, piuttosto la solitudine. Che trovavo bellissima, mi dava un senso di forza, di proprietà di me stessa, di rapporto con il paesaggio intorno”[5].
Le sue descrizioni degli spostamenti, dei nascondigli, delle azioni non parlano tanto di guerra, ma di vita della gente, di rumori, di suoni, di colori, di profumi della campagna.
“Il lavoro di staffetta”, scrive ancora Marisa, “consisteva soprattutto nel camminare”. Marisa deve percorrere una zona molto grande per comunicare notizie e ordini ai diversi raggruppamenti partigiani e raccogliere informazioni sul nemico. “In questo senso il lavoro della staffetta non era solo prezioso”, annota Marisa, “ma il più difficile. Richiedeva prontezza di riflessi, capacità di mimetizzarsi e anche di improvvisare e recitare parti che fossero credibili. Richiedeva sangue freddo e lucidità, stare sempre all’erta”[6]. Dietro ad ogni curva si nasconde un pericolo e la tensione non lascia mai la ragazza, eppure è proprio in quella condizione di pericolo che costruisce la sua cultura della sopravvivenza.
Uno dei suoi incarichi è l’organizzazione dei Gruppi di difesa della donna aderenti al Comitato di liberazione nazionale. Parla con le donne in campagna, dove operano i partigiani per renderle consapevoli del dramma di tutto il Paese. Le loro capacità politiche e morali, sono sottovalutate, ma Marisa scopre donne combattive e intelligenti essenziali alla lotta. Con loro parla della democrazia, dei partiti e del voto, anche se neppure Marisa sa bene cosa sarà la democrazia in Italia. In realtà si deve reinventare tutto. E nella situazione nascente del futuro la giovane partigiana inventa il significato della sua indipendenza di donna.
Marisa Ombra ammette la sua immaturità politica, psicologica e culturale, ma l’esperienza della Resistenza ha reso consapevole lei e le altre ragazze delle loro capacità e ha offerto in concreto la prova che non sono inferiori ai ragazzi in armi. Hanno messo in campo, più degli uomini, le loro doti di mediazione, di comprensione, di intuito.
Ombra sottolinea che, al contrario dei giovani sottoposti al bando di leva, nessuno obbliga le ragazze a fare la guerra: “Mai prima era avvenuto”, scrive. “Fu un fatto nuovo nella storia. Qualche singola donna controcorrente ed eccezionalmente coraggiosa aveva combattuto, ma non era mai successo che così tante ragazze decidessero di non rimanere a casa e di partecipare a una guerra”[7].
Marisa riceve anche una pistola, ma non la usa mai. Lei, riconosciuta partigiana combattente, ha fatto la sua guerra senza armi in mezzo al fuoco dei combattimenti. E l’ha fatta non in nome della guerra, ma della vita. A molti anni di distanza Marisa fa un bilancio della sua partecipazione alla lotta partigiana con queste parole: “Non c’era proporzione tra la mia piccolissima vita e l’immane disastro che stava avvenendo fuori. Ecco una ragione per vivere. Era lì davanti a me, intorno a me. Era il mondo, era il mio tempo. Erano i luoghi e le persone con cui avevo a che fare. Era il mio presente. La mia vita. Non potevo essere indifferente, starne fuori. Dovevo fare qualcosa”.
Sono giovani le staffette e sono giovani i partigiani, eppure, scrive Marisa: “ l’amore dalle nostre parti era uno dei tabù più rigorosamente rispettati”, (…) c’era la necessità della disciplina e il formarsi di una coppia avrebbe potuto creare disordine, magari qualche gelosia e qualche rottura. Quando accadeva, si percepiva una generale disapprovazione”[8]. Il fatto nuovo della presenza delle ragazze nelle bande impone, dunque, nuove regole e obbliga a inventare modi diversi dei rapporti tra i due sessi basati sulla parità e il rispetto, sperimentando nuovi modelli senza riferimenti culturali precedenti.
Finita la Resistenza Marisa continua a fare politica prima nel Partito comunista e poi nell’Unione Donne Italiane. Si schiera, non può rimanere indifferente e porta con sé, nella maturità, il gusto della libertà.
Per Lidia Beccaria ho scelto il titolo “Sogni e desideri”
Lidia Beccaria è una ragazza curiosa e vivace nata in una famiglia contadina del Cuneese, una “ribelle” che contrasta istintivamente il conformismo sociale. All’inizio della lotta di liberazione è a Casteldefino in Val Varaita, dove ha il suo primo incarico di insegnante elementare, e già nel dicembre del 1943, senza una precisa idea politica ma spinta dall’impulso di libertà, si collega con un gruppo di partigiani e diventa staffetta con il nome di battaglia di Maestrina Rossana. Viene arrestata all’inizio di febbraio del 1944, trattenuta dalla Gestapo per dieci giorni carcere di Saluzzo, poi detenuta per qualche tempo alle Nuove di Torino. Quando viene deportata nel Lager di Ravensbruck Lidia ha appena compiuto diciannove anni.
Di quella esperienza terribile si fa portavoce delle altre deportate nel volume Le donne di Ravensbruck, scritto con Anna Maria Bruzzone (1978) e scrive delle traversie del suo ritorno dal Lager ne L’esile filo della memoria (1996).
Non pubblica, invece, i Taccuini scritti nel Lager, ora contenuti nel volume di Bruno Mayda Non si è mai ex deportati. Biografia di Lidia Beccaria[9], piccoli quaderni annotati a matita con disegni tracciati ad acquarello, che Lidia custodisce gelosamente e riesce a portare fuori dal Lager.
Annota: “Non so prendere una matita senza disegnare una delle mie montagne, un angolo delle mie valli, un pezzo di casa mia; i miei occhi sono pieni di visioni meravigliose; sono pieni dell’Italia, il mio spirito mi riporta continuamente a paesaggi ammirati tante volte, a tramonti di fuoco, ad orizzonti pieni di spazio, di sfumature e di colori che al solo ricordo viene il desiderio di ritrarli”[10]. E qualche pagina più avanti “Quando non saprò più disegnare vorrà dire che sono morta”[11]. Quelle pagine esprimono in modo struggente come una giovane donna abbia potuto sopravvivere allo sterminio.
I Taccuini sono il suo diario psicologico, il suo modo di resistere e scrive con orgoglio: “Io non piango”.
Nel Lager sente come primo dovere il richiamo alla libertà, ideale assolutamente contrastante con la disumanizzazione concentrazionaria e scrive “La libertà è la facoltà di fare ciò che si deve e non ciò che si vuole come un dovere”[12], un valore insopprimibile e salvifico perché proietta un presente insopportabile nella speranza di una vittoria. E pensare è un imperativo che rende liberi.
E’ questo il filo conduttore per Lidia del suo percorso di autocoscienza del cambiamento intervenuto nell’anno di prigionia e del raggiunto senso di responsabilità: “Infatti ho imparato, e solo qui, quello che è la coscienza. La mia coscienza è una voce dura, autoritaria, inflessibile che il più delle volte mi obbliga a fare o non fare cose che sarebbero estremamente comode e la sua voce coincide sempre con l’onestà”[13]. E commenta con realismo che è difficile essere onesti in condizioni estreme, quando il richiamo stringente dello stomaco potrebbe facilmente far tacere la volontà.
Lidia è, dunque, convinta che la prigionia abbia prodotto in lei una completa metamorfosi spirituale[14], cioè una ricca maturazione esistenziale, che lei sintetizza come il passaggio dall’imbecillità all’intelligenza. Annota: “Pochi dei vecchi amici e dei vecchi compagni mi riconoscerebbero, dell’”enfant terribile” non resta più nulla, della figlia della montagna men che meno, ieri sera come ultima prova della morte dell’antica Lidia ho dovuto constatare che non so più ballare, ma forse c’è qualche cosa di guadagnato in tutte queste perdite, forse tornando potrò essere una ragazza normale senza tanti grilli per la testa”[15].
Constata che il Lager le ha rubato la giovinezza: “La maturità di spirito ha portato un precoce invecchiamento nel viso, ho già molte rughe sulla fronte e agli angoli della bocca, gli occhi non brillano della luce della giovinezza, e già molti capelli bianchi brillano tra i miei capelli”.
E, anche se la sua vita è a livello animalesco, scrive con rabbia “Voglio vivere anche così, come una bestia, sempre più bestia”[16].
Le condizioni bestiali sono aggravate dalla fame e dal lavoro forzato di undici ore nel lavoro notturno alla Siemens e Lidia descrive le sue compagne così: “Le prigioniere si muovono come fantasmi per l’ala, le membra compiono movimenti d’automa ma con la pesantezza del piombo. Le lancette dell’orologio sembrano inchiodate: invano cerchi sul quadrante un segno che indichi il susseguirsi delle ore”[17]. Eppure qualcuna di quelle ragazze incatenate al lavoro coatto resta capace di dedicarle una poesia per il suo compleanno.
Lidia si sofferma con duro realismo sulla descrizione dei corpi delle altre detenute offesi e brutalizzati, ma può mantenere la sua dignità umana per il sostegno della solidarietà tra donne, come le insegna un gruppo di deportate comuniste francesi. Si chiamaMonique la sua maestra, che le trasmette il senso di responsabilità, le sue convinzioni politiche anche recitando le poesie studiate a scuola.
Il gruppo francese viene evacuato prima di Pasqua 1945 e Lidia trova altri legami di solidarietà con alcune infermiere, che hanno storie tragiche alle spalle, ma sono capaci di compassione. Un’infermiera, vedendola disegnare su fogli di giornali, le chiede perché disegni sempre e alla risposta di Lidia: “Per ricordare”, Irka la esorta “Disegna ancora –rimani viva – forse ce la farai”. E dopo pochi giorni riesce a portare a Lidia un album da disegno e delle matite colorate[18].
Quella solidarietà diventa per Lidia il modello a cui si atterrà per tutta la sua vita, cominciando con il proteggere, durante il viaggio di ritorno dal Lager, due ragazzine sopravvissute ad Auschiwitz.
Il Lager è un luogo paludoso e tetro, infido e pericoloso, tutto nero dominato dalle guardie e dalle fiamme di morte e Lidia esprime la volontà di raccontare quell’inferno in terra quando sarà libera.
Nei terribili momenti di scoramento e di disperazione Lidia ricorda la madre, il padre, la sorella Rita con parole che rivelano il senso angosciante di solitudine. Si sente ancora bambina, ha un bisogno struggente della mamma, che vorrebbe la cullasse dolcemente.
Di notte, quando i crampi della fame la lasciano dormire Lidia affonda finalmente nel sogno, immaginando tutto quello che le è sottratto nel Lager: la famiglia, la casa, la natura, la primavera e la liberazione. “I sogni appagano l’anima e addormentano i desideri come un buon narcotico addormenta il corpo”[19].
La ragazza che ha compiuto vent’anni nel campo di sterminio, mantiene, dunque, la capacità di sognare e di provare sentimenti e annota su un foglietto sparso il suo grido di vita: “Voglio vivere per tornare, per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per raccontare forte, per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno”[20] Per Lidia il rossetto è il segno di giovinezza e di vita e prevarrà sulla distruzione.
Uscita dal Lager, Lidia è capace di riprendersi quella esuberanza, quella volontà di vivere per dare senso alle sue idee e alle sue azioni. E per tutta la sua vita sarà una ribelle, cioè anticonformista e impegnata politicamente e sulle questioni civili.
[1] M. Ombra, la bella politica, Torino Seb27, 2009.
[2] M. Ombra, Libere sempre, Torino, Einaudi, 2012.
[3] M. OmbraLibere sempre, cit., p. 35
[4] M. OmbraLa bella politica, cit. pp. 29-30..
[5] M. OmbraLibere sempre, cit., p. 39.
[6] M. OmbraLa bella politica, cit. p. 34.
[7] M. Ombra, Libere sempre, cit., p. 41.
[8] Ivi, pp. 43-44.
[9] Bruno Mayda Non si è mai ex deportati. Biografia di Lidia Beccaria, Torino, Utet, 2008.
[10] Ivi, pp. 176-177.
[11] Ivi, p. 190.
[12] Ivi, p. 143.
[13] Ivi, p. 174.
[14] Ivi, p. 144.
[15] Ivi, p. 148.
[16] Ivi, p. 191.
[17] Ivi, p. 167.
[18] Ivi, pp. 190-191.
[19] Ivi, p. 148.
[20] Ivi, p. 171.