28/02/2023
DONNE VITA LIBERTA’
testo teatrale - Debutto Teatro dell’Arcoscenico, Asti 5 marzo 2023
Testo teatrale liberamente tratto da La bella politica e Libere sempre di Marisa Ombra, scritto da Laurana Lajolo, Maurizia Giavelli, Luisa Rasero, Valentina Moro, Martina Costa. Ballate composte e eseguite da Daniele Dal Colle. Interpreti Martina Costa, Claudia Sivelli, Ileana Spalla, che ha anche curato la regia.
BALLATA DI DANIELE DAL COLLE #DURANADAM (L’uomo immobile)
Si sentono rumori di manifestazione e cori per la giustizia climatica. Federica sta finendo un comizio
Federica: Ci stanno rubando il futuro. Solo le 30 aziende più inquinanti sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni di CO2 che causano la crisi climatica. Questo sistema economico è marcio dalle fondamenta. È tempo di agire! Ribaltiamo il sistema!
Il comizio finisce, partono gli applausi, Federica inizia a mettere a posto i cartelloni. Si fa avanti Marisa Ombra Fuori campo
Marisa: Che bella manifestazione oggi, ragazzi. Era da tanto tempo che non vedevo così tanti giovani in piazza. Sai, mi ricordate noi partigiani quand’eravamo agl'albori: eravamo così entusiasti, volevamo cambiare tutto.
F. C’è ancora chi lotta per un mondo diverso, più giusto. Oggi noi chiedevamo di smettere con lo sfruttamento selvaggio del pianeta. In Iran invece, negli ultimi mesi, ragazze e ragazzi, al grido di “Donne, vita e libertà” rischiano la vita lottando contro un regime repressivo. E’ diventata una forma di Resistenza globale quotidiana.
Tu la tua parte l’hai fatta. Voi partigiani ci avete lasciato molto.
M: Ah, per me è stata una scelta naturale entrare nella Resistenza. Mio padre lavorava alla Way Assauto ed è stato tra gli organizzatori degli scioperi del marzo '43 contro la guerra.
F. Ma, era già iniziata la Resistenza?!
M. No, ma era la sua preparazione. Mio padre era uno dei promotori anche degli scioperi del '44 contro la Repubblica sociale Italiana e gli occupanti tedeschi. Fu anche arrestato dai fascisti, per poi essere liberato da un gruppo di partigiani poco tempo dopo.
F. Tu quanti anni avevi all’epoca?
M. 19. Mia sorella Pini invece ne aveva solo 17 quando noi e nostra madre abbiamo dovuto lasciare casa e andare al di là del Tanaro con i partigiani.
Siamo andate a fare la Resistenza e ha voluto dire partecipare a qualcosa di molto più grande. Entrare nella storia
F. Vorrei poter dire con certezza che avrei fatto anch’io quella scelta: correre in bicicletta a consegnare informazioni ai compagni sulle colline. Eppure ho così tanti dubbi nelle lotte quotidiane. È come se il nostro impegno non fosse mai abbastanza. Il mondo va troppo veloce, a volte mi sembra di non riuscire a stargli dietro.
M. E’ normale, ci sono momenti in cui ci si sente travolte dalla Storia. E poi ci si mettono di mezzo anche le vicende private. Io, prima della Resistenza, ero in un periodo buio: era mancata mia nonna a cui ero molto legata. Raccontava delle storie fantastiche, scriveva poesie: ho sentito molto la sua mancanza. Ma fu proprio la Resistenza a farmi uscire da quel vortice di cattivi pensieri. La mia esistenza aveva assunto un significato più grande e mi sentivo in dovere di lottare per la liberazione del paese.
Di colpo mi ero sentita adulta e responsabile. Io, come tanti altri, eh. Quello è stato il periodo più importante della nostra vita.
F. Capisco questa sensazione di cui parli. Ci sono momenti in cui anch’io mi sento sovrastata dall’ansia. Le incombenze quotidiane, il sentimento di un futuro incerto, questa crisi climatica e sociale che sembra paralizzarci… Incontrarmi con gli altri attivisti, organizzare scioperi in qualche modo mi aiuta sentirmi meno impotente, meno timorosa. Vedere insieme a me tutti questi ragazzi, oggi, mi ha fatto sentire meno sola. (sorriso)
Noi, giovani antifascisti, tendiamo a vedere voi partigiani come modelli, anzi come eroi… tu non avevi paura?
M. Avevo paura di sbagliare, ma anche un senso di potenza che mi veniva dalla coscienza che tutto dipendeva da me. Ero io a decidere cosa fare, come muovermi, anche se non avevo esperienza alle spalle. Sono stata obbligata a scegliere e a crescere. Da staffetta ho imparato la calma di ragionare e di prendere decisioni impegnative e ho scelto i mattoni con cui costruire la mia vita.
F. Qual era, nello specifico, il tuo lavoro di staffetta partigiana?
M. Era un compito solitario e molto pericoloso, a dire il vero.
Io ricevevo l’ordine del comando partigiano di scortare qualche compagno da una località all’altra evitando gli spari nemici o di riprendere i contatti tra le bande dopo un’azione oppure di dare informazioni sulla posizione del nemico, superando i posti di blocco. Ma eravamo in guerra, da me dipendeva la sorte di altri ragazzi.
Quando camminavo da sola sui costoni delle Langhe, mi sentivo libera. Trovavo bellissima la solitudine, mi dava un senso di forza. Qualche volta mi veniva da cantare… La solitudine mi aiutava a pensare.
F. Deve essere stato terribile vedere il tuo mondo squarciato dal fragore delle bombe. Io non ho mai vissuto la guerra, l’ho solo vista nelle immagini dei TG e tra le pagine dei giornali. Della devastazione in Siria o in Ucraina, per noi, i morti diventano solo dei numeri nella memoria.
M. Noi partigiani siamo stati obbligati a rispondere alla violenza dei fascisti e dei nazaisti... Anche se mi era stata consegnata una pistola per difesa personale, ma non l’ho mai usata
F. Hai detto che ricordi quel periodo come uno dei più importanti della tua vita… Avrai pur vissuto qualcosa di bello, no? Com’era la vita nella banda partigiana? Quali rapporti c’erano tra voi, ragazze e ragazzi?
M. Stare nella banda tra giovani donne e uomini è stata una cosa assolutamente nuova per la mia generazione, direi di più, un fatto nuovo della storia, che ha fatto ripensare lo stesso rapporto tra i sessi. Ha portato una libertà nuova e io l’ho vissuta come una conquista importante. Sono sempre stata rispettata. Ti faccio un esempio: una notte di un inverno freddissimo siamo andati a ripararci in una stalla e un giovane partigiano che era con me mi ha indicato come mio letto la mangiatoia, una zona più sicura e al riparo dalle intemperie.
F. Ma non vi innamoravate tra voi? Eravate così giovani.
M. E’ vero, avevamo l’età in cui ci si innamora. Il primo partigiano che ho incontrato era esattamente come le leggende rappresentavano gli eroi: vent’anni, forse meno, alto e bello, ma non prestavamo troppa attenzione ai nostri corpi.
Eravamo diventati ragazzi diversi da prima e facevamo un esercizio di autocontrollo dei nostri sentimenti, una nuova disciplina. Sapevamo di stare facendo qualcosa di più importante della nostra singola vita. Dovevamo stare sempre allerta e molto concentrati.
F. Autocontrollo sui sentimenti? Sembra così triste e costrittivo. Per me, invece, l’ideale politico è anche e soprattutto passione.
M. Ma no, avevamo anche momenti di spensieratezza: sentivamo un legame profondo tra noi, quasi un innamoramento collettivo, che non ho mai più provato dopo.
Non contava il nostro destino individuale, in fondo, il mio privato l’ho scoperto quando sono entrata in contatto con le femministe di Roma.
Suoni e evocazioni Io sono mia Tremate le streghe sono tornate Il privato è politico
Anna. Già. Noi femministe abbiamo rovesciato il modo di essere e di sentirsi delle donne, abbiamo riscoperto la differenza femminile e abbiamo messo in crisi l’autoritarismo maschile anche nella vita di coppia e nella scelta della maternità. Grazie a noi, in Italia non ci si poteva più nascondere: divorzio e aborto esistevano.
M. Dopo la Liberazione, noi partigiane abbiamo fatto un grande salto in avanti nel processo di emancipazione della donna e dell’uguaglianza con gli uomini, ma esistevano ancora pesanti vincoli culturali e sociali da combattere.
A. Ci hanno fatto studiare pensando che così avremmo trovato un buon marito, ma nei libri e nelle aule abbiamo invece trovato gli strumenti per la lotta. In quel periodo il nostro privato è diventato politico. Una delle prime cose che si scoprivano nei gruppi di autocoscienza era che i problemi personali sono problemi politici. Affermare che il personale è politico voleva dire che, se una donna era vittima di violenza domestica, sicuramente tale violenza era un attacco personale nei suoi confronti, ma era anche un attacco politico alla donna, causato da una società incapace di educare al rispetto e alla parità di genere. Quindi, solo cambiando politicamente la società si sarebbe potuta ridurre la possibilità che episodi simili si verificassero nel privato.
F. Per me, per la mia generazione, il privato è sempre stato collettivo. Parlare della nostra vita, del nostro orientamento sessuale, per esempio, è una scelta politica. Io mi definisco una transfemminista intersezionale, seguo una prospettiva politica che abbraccia molteplici lotte contro tutte le oppressioni possibili, senza imporre una gerarchia fra di esse ma rivendicando le specificità di ciascuna, che si tratti di sesso, di etnia, di identità di genere, di classe sociale, di abilità...
M. Oggi, quando c’è ancora l’oppressione del più forte, è la scelta più giusta, ma io, allora, avevo una scarsa, anzi… nessuna importanza, importante era quello che comunicavo politicamente.
F. Per liberarsi dall’oppressione è diventato fondamentale prima di tutto riappropriarsi della propria identità, partendo dall’idea che il proprio vissuto è valido tanto quanto quello altrui, per non rischiare di sentirsi annullati dai pregiudizi di una società patriarcale, capitalista e colonialista.
M. Sì, certo. Ma vivevo nella lotta, mi identificavo con l’ideale che perseguivo. Anzi, quasi disprezzavo l’attenzione alla mia persona, per evitare l’individualismo.
A. Ma, io so che tu hai sempre amato vestirti con una certa eleganza e che, quando hai smesso gli scarponi da partigiana, ti piaceva portare i tacchi a spillo. Come si conciliano le due visioni?
M. (ride) Ah, mi vestivo a quel modo quasi per provocazione. Mi piaceva sentire l’eco dei miei tacchi a spillo che risuonava tra gli uffici della Federazione Comunista (di Asti) creando un certo sconcerto tra i compagni più anziani. Ma, io stavo soprattutto con i miei amici che avevano fatto la Resistenza, curiosi di novità, intelligenti, tesi ad allargare il proprio orizzonte culturale. Leggevamo molto e discutevamo di tutto con grande libertà e ironia.
A. Beh, eri coraggiosa e controcorrente tu: altre staffette, dopo la Liberazione, sono rientrate nel ruolo tradizionale di mogli e madri di famiglia.
M. Certo, il giorno del corteo della Liberazione ho avuto la sensazione che, per noi ragazze, finiva la trasgressione, dovevamo tornare alla quotidianità, ma per me fu del tutto naturale continuare a fare, in altri modi, ciò che avevo fatto negli ultimi due anni, questa volta semplicemente allo scoperto, non più braccata da fascisti e tedeschi. Qualunque altra alternativa mi sarebbe parsa un tradimento, come quasi vergognosa l’idea di coltivare un progetto personale.
A: Ma… a un certo punto della tua vita ti sei trasferita a Torino? È lì che hai conosciuto Giulio, giornalista dell’Unità1? Anche in questo caso non eri parte di una coppia “regolare” agli occhi della società, visto che lui era separato dalla moglie…
M. La nostra situazione irregolare non era ben vista dai funzionari del partito di Torino e, infatti, abbiamo dovuto trasferirci a Roma. Giulio ha lavorato al quotidiano Paese sera e io, dopo qualche impiego saltuario, sono andata a lavorare all’Unione donne italiane. Ho sposato Giulio soltanto nel 1990, dopo 34 anni di convivenza.
F. Un rapporto lungo, che a me sembra oggi quasi impossibile… Oggi abbiamo molti strumenti per scardinare quell’immagine dell’amore e dei rapporti di coppia che ci hanno passato i media, che ci fanno credere e alimentano l’illusione che esista un “per sempre felici e contenti”, che potremmo essere tutte principesse.
A: Tu, Marisa, hai lavorato per tenere insieme la coppia, la mia generazione invece rifiutava la sudditanza, andavamo contro quella struttura che ci avrebbe volute sottomesse, noi trovavamo la nostra forza nel gruppo, nella solidarietà tra donne. Gli uomini erano spaventati da noi, a volte. (ride)
F: Altro che Principesse… delle meravigliose Streghe! Come hai vissuto tutto questo, tu, Marisa, donna libera ed emancipata?
M. Per far parte della coppia, abbiamo dovuto imparare la duttilità, la mediazione e scompaginare le nostre priorità. Il nostro rapporto di coppia è stato intenso e faticoso, una guerra talvolta sotterranea, talvolta aperta. Devo confessarti che, all’inizio, mi sentivo inferiore alla cultura e alle capacità di Giulio. Credo che sia stata l’esperienza condivisa dalle donne emancipate della mia generazione.
A. Poi il femminismo ha sconvolto quell’idea di angelo del focolare, della donna che si dedica solo ai figli e alla famiglia. E tutto questo come ha influito sulle tue idee, sulla tua vita?
M. Fino ad allora le donne della mia generazione non erano consapevoli del pensiero che si occupava dell’Io. All’inizio anche l’UDI aveva riserve sui contenuti delle rivendicazioni femministe. Poi ho cominciato io stessa ad avere dubbi sulle mie certezze e a percepire che qualcosa stava succedendo, che tutto il discorso veniva spostato più in alto.
A. Che impressioni hai avuto quando hai stabilito i contatti con le femministe?
M. Le femministe che ho incontrato erano allegre, avevano un’invidiabile sicurezza di sé, un atteggiamento di sfida. E mi hanno aiutato a recuperare la memoria della mia esperienza nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra.
Per me l'UDI ha significato un sentimento di appartenenza a qualcosa di potente, l'affetto per tutte. Quel sentirsi insieme, tante, determinate a volere la stessa cosa. Guarda, mi commuove ancora adesso.
A. Nella tua esperienza di essere donna è cambiato qualcosa?
M. La cosa più importante che io ho imparato da loro è che la libertà non è solo qualcosa da conquistare nella difesa delle proprie scelte, ma anche nel rapporto di coppia.
A. Ritorna nelle tue parole la libertà come la cosa più importante della tua vita.
Nei nostri gruppi le donne hanno imparato a manifestare l’interiorità più profonda, a mettere in relazione i vissuti personali e l’elaborazione politica. Anche questo è un esercizio di libertà.
M. Come dici tu, io ho capito che la libertà era una faccenda prima di tutto interiore, che investiva tutto l’agire. Si trattava di uscire da una costruzione compiuta e convincente e cambiare registro. Dovevo costruire una mia libertà di pensare e di esprimermi. E dirla senza paura.
Ho avuto bisogno di coraggio per affrontare il rischio intellettuale, ma è stato bellissimo.
A. E tuo marito? Lui come ha vissuto questa tua riscoperta?
M. Giulio voleva capire, era curioso, ma anche ironico sulle femministe. I rapporti di coppia erano più complicati, ma erano gestiti con una calma e una consapevolezza mai avute prima. Ero in grado di rispondere con energia e delicatezza, non mi sentivo più inferiore rispetto alla sua cultura, ora sapevo rispondere con la mia voce.
Eravamo molto diversi e Giulio mi ha dato molto, ma abbiamo avuto molti momenti di frizioni e di lontananze.
A. Da quello che dici, credo di capire che il femminismo, per te, è stato davvero un’esperienza rivoluzionaria non solo politica, ma anche personale. In effetti la nostra rivoluzione è cominciata dal corpo, gridavamo sulle piazze “L’utero è mio e lo gestisco io” e le vittorie su divorzio e aborto erano liberazione dei nostri corpi.
Abbiamo anche sovvertito l’idea di moda e di bellezza. Ti ricordi quando bruciavamo i reggiseni in piazza?
M. Si, da quel momento abbiamo deciso noi cosa era e cosa non era bellezza, non più lo specchio del desiderio altrui.
Ma a metà degli anni ’80 la TV commerciale, con la mercificazione dei corpi delle donne, ha posto al centro dell’attenzione un nuovo modello. La vita veniva presentata come una grande festa, senza più fatiche e ostacoli.
Noi donne, sia come quelle che venivano come me dalla Resistenza che quelle come te che erano femministe, forse non abbiamo subito compreso la gravità di quello che stava succedendo, era una vera e propria trasformazione antropologica.
A: Anche io mi sono accorta di questo cambiamento: le ragazze erano forti dei diritti conquistati, senza sensi di inferiorità, ma stava di nuovo succedendo qualcosa all’uguaglianza tra i sessi, ai diritti, alla dignità, al posto nel mondo che pensavamo di aver conquistato per sempre, e invece abbiamo sottovalutato la situazione.
M. Addio alla bella rivoluzione degli anni ’70.
Il corpo femminile era diventato un bene di lusso da perfezionare, un’impresa commerciale con una contrattazione tra chi possiede una merce deperibile e chi ha il potere. C’era la rinuncia volontaria alla dignità e alla libertà conquistate.
A. Il problema è stato che il capitalismo ha inglobato il femminismo, come fa sempre, riducendolo a un consumismo sfrenato.
F. Esatto, se n’è appropriato appiattendo ogni tipo di messaggio. Gli slogan femministi ci sono stati venduti sulle magliette confezionate da donne e bambini del Bangladesh, prodotte da quelle marche della fast-fashion interessate a spendere il meno possibile e sfruttare tutto e tutti: è così che hanno iniziato a essere consumate esponenzialmente le risorse naturali del pianeta. A volte mi sembra di vivere in un film pre-apocalittico. Tutto aggravato dal fatto che viviamo in una società senza punti di riferimento, così… liquida.
A. E ora si vuole tornare indietro, eliminando i diritti conquistati. Come le donne afghane e le donne iraniane che hanno perso i diritti allo studio e alla libertà. Mi fa infuriare.
F. Non solo perdono diritti, ma muoiono, ragazze e ragazzi sono torturati e uccisi per difendere la propria vita. Forse siamo davvero nel bel mezzo di una terza guerra mondiale a pezzi. Frammentata, come tutto quello che ormai ci circonda…
BALLATA DI DAL COLLE “MILLE FARFALLE”
F. Hai letto il giornale di oggi? È affondato un barcone con 200 migranti nel Mediterraneo, non si sa ancora quanti siano i morti. Il mare Mediterraneo è diventato il più grande cimitero del mondo.
A. E ci sono campi profughi in tutta Europa, in Turchia, in condizioni insopportabili.
F. A leggere queste notizie mi viene da gettare la spugna. A volte sembra che arrendersi sia davvero l’unica possibilità.
M. Proprio no. Le nostre due generazioni hanno dei punti in comune perché si trovano in mezzo a un mondo cosparso di molte rovine.
A. Almeno noi vivevamo in una società strutturata e abbiamo potuta combatterla sgretolandola dalle fondamenta, o almeno così ci sembrava.
M. La mia generazione ha avuto la fortuna di avere come guida miti importanti, potenti che hanno affascinato interi continenti. Ci davano identità e ci tenevano insieme.
Passioni che guardavano lontano, anche se poi con quei miti, quando sono crollati, abbiamo dovuto fare conti complessi e difficili. E’ stata la fatica più grande superare la delusione di una passione.
Quali sono i miti della tua generazione?
F. Siamo cresciute ascoltando la storia di Malala Yousafzai che dal Pakistan ha iniziato la sua lotta per garantire il diritto delle ragazze ad andare a scuola, di Greta Thunberg e del movimento di Fridays for Future che scioperano per chiedere lo stop dei combustibili fossili e di Alexandra Ocasio Cortez che si batte per salari giusti e una sanità gratuiti negli Stati Uniti.
M. Eppure si dice che siate la generazione senza ideali…
F. Non sono i miti che ci mancano, ma un’organizzazione. Molte e molti di noi vogliono impegnarsi, si attivano, fanno volontariato, ma manca la connessione con la politica che ha avuto la tua generazione.
M. Non esiste un solo modo di fare politica. Io la politica l’ho scoperta in una cucina contadina durante gli anni della guerra. Eravamo ad Agliano e ci eravamo trovate a casa di una di noi, si svolse una bellissima riunione di una trentina di donne e qualcuna mi chiese di spiegare cos’erano i partiti. Risposi come sapevo, lavorai di immaginazione, raccontai probabilmente ciò che le mie speranze e i miei desideri mi suggerivano.
L’unica cosa vera e certa, di cui tutte eravamo più o meno consapevoli, era che si doveva reinventare tutto.
F. Voi eravate l’inizio di una nuova epoca, ma oggi mi pare che tu veda la politica come senza ideali, senza miti.
Sai, ho letto il tuo libro autobiografico, tu parli di “bella politica”. Ma spiegamelo in parole povere: cos’era per te la bella politica?
M. Per noi donne fare la Resistenza è stato imparare anche la politica ed è stata una sconvolgente scoperta. La scoperta che la vita si svolgeva su orizzonti molto più vasti rispetto a quelli fino ad allora conosciuti. Che esisteva un’altra dimensione del mondo.
E quindi per noi la politica voleva dire uscire dal piccolo particolare, fare il bene di tutti, cancellare gli egoismi, abolire le disuguaglianze, ripensare il mondo, rifondare i valori…il capovolgimento del mondo, insomma.
Questa è la sostanza della bella politica.
F. Ma noi viviamo in un’altra realtà. Il Novecento è morto. La politica dei partiti di massa è morta. Siamo in un mondo lacerato e ci aspetta un futuro oscuro in un ambiente sfruttato. Eppure lo vediamo che le ragioni per combattere non sono finite. La disparità di genere sul posto di lavoro, la crisi climatica, gli stipendi bassi e i contratti precari per noi giovani. Non abbiamo certezze, è vero, ma vogliamo cambiare questo sistema. Così come è necessario trovare parole nuove per problemi nuovi.
A: Hai ragione, nel nostro presente le donne subiscono ancora, ad esempio, tutta quella violenza verbale fatta di termini patriarcali, ma pensate all’azione simbolica e rivoluzionaria delle ragazze iraniane che si levano il velo per affermare il diritto alla libertà e alla vita.
M. Ecco, pur in mezzo a tutte le difficoltà, io vedo il cammino delle donne come un grande affresco con grandi folle di donne, tutte diverse l’una dall’altra, che danno di sé un’immagine di festosa compattezza.
Noi abbiamo vissuto nella storia, eravamo all’interno di un percorso collettivo verso la libertà con l’impegno di inventare la democrazia dopo la dittatura, di conquistare quei diritti, che voi giovani dovete oggi difendere ed estendere.
Adesso tocca a voi andare al di là di ogni apparenza della società dell’immagine.
Vi lascio la mia conquista di libertà, di responsabilità e di dignità.
Ricordatevi di essere libere sempre.
BALLATA DI DALCOLLE “LIBERE SEMPRE”
Daniele Dal Colle Ballata #DURANADAM (L’uomo immobile)
Non posso giocare, non posso parlare, non posso sedere ma solo ascoltare
Non posso discutere, non posso studiare, se anche volessi non potrei suonare
Non ho più neanche un nome.
Con lo sguardo per terra mi preparo ad uscire,
accompagnata dal mio carceriere
neanche la sera posso più riposare e se vado a dormire
dormo per sognare.
Di notte però senza velo nel buio
Mi trucco e mi pettino senza farlo vedere
Indosso le vesti più colorate
Canto e sorrido e studio e discuto
Prima che l’alba mi prenda a frustate
Ma ho sentito di un uomo, un ragazzo, un artista
Immobile e solo in mezzo a una piazza
Sfidando il suo re le sue torri e i soldati
In silenzio protesta.
Duranadam, duranadam,
l’uomo immobile chiede la sua libertà
Duranadam, duranadam,
canta con me ti dimostrerò
cosa un pedone può fare ad un re.
Sono un ingegnere, ballerino ed artista, in un paese senza cuore ne testa.
Ho sopportato, taciuto e ubbidito, picchiato arrestato e poi torturato
non ho più neanche fame
Come in tempi di guerra mi preparo ad uscire
Schivando pattuglie per non farmi vedere
La divisa strappata a mimetizzare
Solo per compiacere
E ballo di notte i balli proibiti,
coloro di luce il buio del giorno
Compro i miei dischi da un contrabbandiere
Recito e Danzo e compongo e dipingo
Prima che l’alba mi riporti nel fango.
Ma ho sentito di donne, di madri e di figlie
Con forbici in mano e lacrime agli occhi
Sfidando sultani e guardiani morali
Tagliarsi i capelli.
Duranadam, duranadam,
l’uomo immobile chiede la sua libertà
Duranadam, duranadam,
canta con me ti dimostrerò
cosa un pedone può fare ad un re.
Sulla scacchiera tra il bianco ed il nero
Fra torri e cavalli e soldati e lacchè
Ho sentito di uomini e donne d’oriente
Immobili in piazza e senza più capelli darsi la mano.
Scacco matto al re.
Duran adam Questa espressione in lingua turca è assurta a neologismo di opposizione e resistenza non violenta verso gli abusi del potere costituito. Nasce da una iniziativa di Erdem Gündüz, coreografo, ballerino e ingegnere, ideata il 17 giugno 2013 a Taksim per protestare contro l’intervento violento della polizia turca durante le cosiddette contestazioni nel Parco di Gezi.
MILLE FARFALLE
Hai appoggiato la tua mano di bimbo sul vetro di un autobus in fuga dal fuoco
Ti ho affidato al mio sguardo di padre mentre ti allontanavi a poco a poco
Ti ho cercato lassù sul confine per un orsacchiotto e bicchiere di latte
Ti ho aspettato e sorriso e scaldato per vederti di nuovo partire di notte
E poi ti ho guardato con tenerezza addormentarti in metropolitana
E poi ho toccato lo schermo in silenzio per una carezza da lontano
Ti ho seguito con gli occhi socchiusi mentre correvi senza fiato
Col peso leggero e i colori di una farfalla sul filo spinato
Hai trovato milioni di padri di madri e fratelli e sorelle nel canto
Un filo rosso che unisce persone, una speranza in un soffio di vento.
Le mie mani diventino ombrello riparandoti dalla pioggia
Il mio corpo come un mantello, perché la notte sia tiepida e breve
E che il mio cuore si faccia bunker per proteggerti dalle bombe
E che il mio sguardo si faccia radar per proteggerti ovunque tu vada
Hai trovato milioni di padri di madri e fratelli e sorelle nel canto
Un filo rosso che unisce persone, una speranza in un soffio di vento.
Spero ancora che quello che hai visto là fuori
Possa un giorno essere ricordato
E ancora che il peso di mille farfalle faccia crollare ogni filo spinato.
LIBERE SEMPRE
dedicata a Marisa OmbrA
Re- Sib Re- Sib
Notte senza stelle sui sentieri delle Langhe
Re- Sib
Pini come sentinelle
Re- Sib
Messe a guardia dei confini
Do Fa La
Nessuno sa il tuo nome, per tutti è Lilia
Re /Fa Sol La (2v)
Re /Fa # Sol La (2v)
Imbottita nei vestiti con messaggi di speranza
Re /Fa #
D’imboscate e appuntamenti
Sol La
La borraccia e un po’ di pane
Si- La Sol La
La ragazza in bicicletta e la macchina da scrivere
Si- La Sol La
Che tuona come colpo di cannone
Quando il bosco si dirada, si alla torre c’è silenzio,
Solo il canto della neve
Solo fumo e fuochi spenti
La ragazza adesso guarda il suo povero Paese
Prende fiato e poi rinnova la promessa
Libere, libere, libere sempre
Libere, libere, libere
Volantini come panni stesi in casa ad asciugare
Poi incollati sopra i muri
Delle case monferrine
Senza cibo da sprecare, non c’è tempo di dormire
Campi e fabbriche a difendere, donna per le donne
Striscia a terra lentamente con il viso nella neve
Con lo sguardo sulle Langhe
Con l’orecchio al Monferrato
Camminando e combattendo con parole mai udite
Risvegliando sonni imposti e senza pace.
Libere, libere, libere sempre
Libere, libere, libere
Quelle macchie di colore, come oro quei castagni
Rosso sangue nelle vigne
Verde acceso dei crinali
Trasgressione al bianco e nero della donna nella storia
Come un bucaneve accende la speranza
Camminando o pedalando Lilia adesso è rièartita
Ha ripreso la sua strada
Di staffetta partigiana
È di nuovo la ragazza con lo stesso fiore in bocca
Il suo ultimo messaggio come il primo
Libere, libere, libere sempre
Libere, libere, libere