Associazione Davide Lajolo Odv

Saggi

20/02/2014

I colori della Poesia

Alcuni estratti da "Gli uomini dell’arcobaleno": Davide Lajolo racconta i suoi amici artisti

Curioso e innamorato dell’arte

Sicuramente è stata quella professoressa di storia dell’arte negli anni del liceo a impastarmi la fantasia di segni e di colori. (…) Quelle ore di lezione erano per me così intense di emozioni che cambiavo addirittura carattere e atteggiamento. Mi trasformavo da capintesta dello scherzo e dell’indisciplina in uno scolaro attento, tutto orecchi. (…) Furono sicuramente quelle lezioni e anche gli occhi della professoressa, che riflettevano l’amore per le opere e gli artisti, a farmi curioso e innamorato dell’arte.

Venivo da un paese di campagna. Ero cresciuto in mezzo ai colori naturali là dove il sole aveva proprio il suo colore nell’illuminare le colline a splendere sulla cipria dei fiori di mandorlo, là dove la luna trapassava il buio della notte e allineava i filari dei vigneti dando volti misteriosi alle piante, voci arcani ai grilli, luci rilucenti alle lucciole, eppure soltanto in quelle ore di lezione di storia dell’arte quei colori si ridipingevano negli occhi dell’anima.

Anche nell’arena della vita, nella tragedia delle guerre e nel tumulto travagliante di un vivere tutto azione, l’oasi degli artisti non è mai stata con me avara di doni prestigiosi.

Compagni di vita
Lo scrittore e l’artista furono i miei compagni di strada insieme agli operai e i contadini, nella redazione de l’Unità e di Giorni-Vie Nuove, alla Camera dei deputati, nei miei libri, che hanno avuto le copertine fatte dagli amici pittori.

Non sono un critico d’arte
Non sono mai stato e non potrò diventare, per carenza di cultura specializzata, un critico d’arte. Dei pittori, che ho conosciuto e di cui mi sono occupato, ho cercato soprattutto il profilo umano, mi sono sforzato cioè di scavare nei legami tra l’uomo e la sua opera, la sua vita, le sue immagini quando esprimevano poesia.

(I testi sugli artisti sono tratti da Gli uomini dell’arcobaleno di Davide Lajolo, Tota editore, Parma, 1984 e da cataloghi di presentazione di mostre a cura di Laurana Lajolo)
 

UGO ATTARDI

Con Attardi oltre alla stima nacque subito l’amicizia. Avevamo troppe cose in comune, troppe cose da dirci. Il suo studio officina era accogliente. Con quel grande salone a pianterreno a volte alte, dove campeggiavano come giganti le statue in legno ch’egli andava preparando intercalando la pittura con la scultura. Lo ricordo in studio  accanto a quei volti di donne dipinte con malinconia, ma palpitanti come uscissero dalla nebbia dei ricordi.

Ugo Attardi ha fatto un percorso opposto ad altri artisti: dall’astrattismo al realismo. E’ un uomo di osservazione di studio, che sa esprimere le sue complessità e le sue contraddizioni con forza conturbante. Calvinista nel metodo, siculo nella fantasia e nella testardaggine, solitario nelle sue decisioni, ha preso il passo, pagando il tributo sia negli errori sia nelle scoperte, slanciandosi all’aperto con la volontà irriducibile della prova e della riprova, facendo da solo l’esperienza di conquistare la propria libertà culturale senza condizionamenti politici o intonazioni scolastiche. Vuole indagare, scoprire le cause, strappare le radici del male, che è in noi e negli altri, liberare dalla violenza uomini e cose.

 

LUIGI BIFFI

Sempre a testa bassa nel silenzio concitato dei suoi pensieri, Biffi è in un continuo esercizio per raffrontarsi con la realtà quotidiana, alla ricerca spasmodica e tenace di quella parte di verità, senza la quale gli pare inutile camminare, parlare, accompagnarsi con la gente e soprattutto dipingere.
Biffi è uomo da marciapiedi cittadini. Non sa vivere che tra gli alti palazzi della città, soffre della mancanza di verde come tutti, ma il suo viso grigio e serio è costretto tra il cemento.
Il suo uomo, stando al centro della città, patisce la solitudine come in un deserto senza fine.
Ormai Biffi ha fatto suo il patrimonio e il linguaggio della realtà che lo impegna,  può scrutare dentro le sue figure, sapere l’indispensabilità di quel colore e di quella prospettiva del quadro.
Il suo dover fare i conti con il vivere quotidiano incide anche nella sua pittura, la involge in un grido soffocato che talvolta pare senza speranza, come l’uomo che sfugge dalla fabbrica o l’altro che è tra cielo e terra, come disperso tra vita e morte.

 

FLORIANO BODINI

Floriano Bodini è un lombardo di testa e di nascita, allievo di Messina. Nato a Gemonio, un paese arrampicato nell’alto Varesotto, Bodini è entrato a Milano subito dalla porta principale.  Aveva un talento innato e, con la testarda ostinazione di chi viene dalla campagna, ha unito studio e cultura alle sue naturali doti di plasmatore della materia.
Solitario, sempre immerso nel ricercare, trova nella creatività del lavoro l’unico incanto.
Osservo le sue acqueforti con i colori, che in genere gli scultori usano in modo così impareggiabile, e poi ad una ad una tutte le sculture.
Bodini vuole far vivere la gente oltre il tempo. Sono ritratti che Bodini ferma nel bronzo, nel marmo, non per dar loro la vita come pensieri, desideri, sogni, incubi e incanti. Vuole dare a loro di più: la vita che desideravano, il traguardo che volevano raggiungere, il senso del potere o della pena, il richiamo dell’amore o dell’odio. Bodini sa dare lìuno sguardo alle creature sì da renderle inconfondibili tra mille, somiglianti soltanto a quelle cui si è ispirato.

 

REMO BRINDISI

Ho ricevuto da Remo Brindisi una preziosa edizione curata da Giorgio Kaserlian con questa dedica: “A Davide Lajolo con viva stima e amicizia. In nome di un sodalizio culturale che ci rende liberi e interessati al futuro”.
Dopo tanto successo di critica e di pubblico, la capacità di Brindisi di entrare in una nuova figuazione, in dialettica con se stesso oltre che  con altri, si è fatta ancora più serrata. Brindisi si è convinto da un anno all’altro, da una ricerca all’altra, che non esiste racconto visivo che non implichi tutto dell’artista, dal personale al privato al pubblico, a quanto sta attorno. Il suo sforzo è di interpretare il rapido evolversi della civiltà e inciviltà dell’uomo contemporaneo, il susseguirsi veloce del tempo, dei fatti, del costume, delle idee, delle invenzioni e delle repressioni, dei salti improvvisi e dell’immobilismo. Dare il segno del movimento è il suo assillo e il suo tormento.
I suoi personaggi complicati spesso si trasformano in mostri, ma nulla vogliono perdere dell’umano quasi scontassero la condanna di Caino.

 

CORRADO CAGLI

Quando ho conosciuto Cagli e ho potuto imprimermene dentro la presenza fisica mentre parlava come mentre taceva, mi sono reso conto del  perché attorno alla sua arte vi fossero stati fino ad un certo periodo giudizi e pareri anche opposti: tra chi lo riteneva un grande pittore e chi una specie di mago bravo soltanto perché aveva la mano fatata. Cagli è, infatti, il raccontatore della realtà vicina e di quella leggendaria.
Nel volto di Cagli è impressa la geometria dei tagli di certi quadri, in cui si ripetono l’invenzione e l’anima. Quando Cagli ti guarda non lascia la presa delle pupille fino a quando non ti ha capito e non l’hai capito. La sua logicità, la sua dialettica lo difendono dall’infervorarsi ai discorsi degli altri, la sua libertà politica e spirituale dalle strumentalizzazioni politiche. E’ un artista copernicano.
La sua tenerezza è profonda proprio perché è schiva e distaccata, una tenerezza mai disgiunta da un lucido ragionare che fa anche della fantasia e dei sentimenti altre componenti disponibili a sposarsi con la scienza, persino con il calcolo matematico.

 

ENNIO CALABRIA

Ennio Calabria ha un bel volto da bambino corrucciato anche quando fa alzare in continuazione il fumo nero del mezzo toscano, anche quando tra i capelli corvini hanno cominciato ad apparire i primi fili bianchi.
Calabria ha saputo portare via da una città come Venezia certi ricordi che la città dà soltanto a chi se lo merita. Una sorda tristezza alimenta il lirismo concitato e sensualmente conturbante di Ennio, e il suo calore umano dà trasparenza e rilievo a tutti veri significati.
Calabria è un polemico intransigente, spesso complicato negli articoli e nei saggi che scrive, impegnato dialetticamente al punto di rallentare la sua produzione pittorica per seguire una discussione interminabile. Doveva scoprire quante fossero le difficoltà nello svolgere come pittore l’analisi che faceva da critico e come pensatore.

 

GIOVANNI CAPPELLI

Viene dalla campagna romagnola, dalla provincia e la decisione di cercare Milano l’ha fatta quando aveva tanto assimilato il sentimento della terra da non poter dimenticare la natura contadina. Cappelli  ha conosciuto nell’infanzia il gracidare delle rane nei fossi, il canto dei grilli, mentre dalla solitudine d’un campo o dall’uscio di casa parlava a tu per tu con la luna notturna e a luce alta si scontrava con il sole.
Naturalmente l’impatto con la città, anche se voluto, non è stato facile, la città grande non è prodiga di felicità, ma ha difficoltà a lasciarsi conoscere e ad essere generosa. Così le tele di Cappelli sono nate dolenti, ma vere come il dolore quando non è malinconia dell’incomunicabilità e angoscia intellettualistica.
Nonostante le sue figure di donna siano pensose e scavate fino alla radice del pianto senza lacrime, nonostante le sue sedie, i suoi tavoli sappiano delle desolazione degli ospedali anche quando sono quelli di casa, nonostante i colori si stemperino nel grigio e nel marrone e il bianco e il nero siano davvero il concerto più alto di questo poeta che canta da sottoterra, la vita vince, perchè  pensieri e ricordi, memorie e salti nel futuro confermano che non c’è rassegnazione, ma rivolta.

 

CARLO CARRA’

Incontrai Carrà in treno, ritornando a Milano da Roma. Il viaggio si animò nella dicussione. Carrà era in vena. Ripercorreva tutta la sua vita: gli inizi battaglieri poi i primi successi, uno ad uno i dipinti che gli avevano dato prestigio. Carrà parlava con la voce roca. Giustamente si considerava, insieme a Montale, una specie di istituzione. Enumeravamo insieme gli incontri, soprattutto in via Manzoni a Milano, le chiacchierate sul marciapiede e quando saliva da me nella redazione de l’Unità in piazza Cavour, o quando mi invitava nel suo studio per chiedermi cosa mi dicevano i suoi disegni e certi dipinti rimasti a metà.
Carrà, alessandrino proveniente da una terra vicina alla mia, parlava a scatti, come obbedisse a sobbalzi che lo riscuotevano all’improvviso, con frequenti rauchi colpi di tosse: “In fondo i riflessi del sole, le ombre delle piante, certi colori, i versi, i gialli mi sono rimasti dentro da quando li vedevo con gli occhi innocenti, quando nulla era inquinato, né la gente né la natura. Vi sono sentimenti dell’infanzia che ti rimangono dentro anche se li tradisci con il tuo vagabondare altrove”.

 

GIANCARLO CAZZANIGA

Cazzaniga è cresciuto con Morlotti, con Ajmone, con Cappelli, con Fanesi, con Forgioli, con tanti altri. Per fare citazioni più compromettenti si potrebbero fare i grandi nomi dei pittori francesi. E invece per me Cazzaniga è uno di casa, è uno che ha faticato da solo per ritrovarsi nei colori e nell’anima. Sotto la sua tenerezza c’è sempre una forza dirompente ch’egli riesce a dominare.
Forse chi ha detto la parola più giusta per questo artista è Leonardo Sciascia quando è venuto fuori accennando alla “follia” di Cazzaniga. La follia, cui accennava Sciascia, credo s’incentri nella ricerca ossessiva della realtà che non può essere soltanto quella della poesia. Per Cazzaniga è più spasmodica perchè, contrariamente ad altri, egli ha trovavo presto il suo linguaggio pittorico, arcano, misterioso e nel contempo semplice e familiare.

 

SILVIO CIUCCETTI

Silvio Ciuccetti è tornato alle radici monferrine, dopo essere passato con l’ardore dei suoi anni giovani attraverso tutte le contestazioni che sono indispensabili se uno vuole rendersi conto di che cosa gli sta accadendo intorno. . Ha un suo fare perentorio e ha frantumato il suo bagaglio di cultura scolastica contro le utopie della rivoluzione, nella frenesia del segno nuovo attraverso l’astrattismo, carico di simboli che dovevano dire tutto ma lo lasciavano invece più deserto e amaro. Quindi il ritorno alla figura con un’autocritica interiore, riscoprendo il valore di una diversa cultura e l’uomo come il materiale più prezioso.
Si è ispirato al vittorioso persistere dei colori che nel Monferrato splendono in quei verdi di prati e di piante, in quei stretti spazi del giallo del grano in gioco geometrico coi filari, nel segno della povertà e anche della crudeltà della piccola proprietà contadina con i suoi riquadrati di terra.
Il racconto si snoda tra infanzia e maturità, tra città e campagna, tra il suo precedente mondo di astrazioni e i bambini vivi nel verde, caldi nei colori, e la simbolica colomba si alza sui bambini festanti. Una speranza di libertà.

 

GINO CORTELLAZZO

All’inaugurazione della sua mostra alla galleria Bergamini in via S. Damiano a Milano Gino Cortellazzo, con la sua alta statura, domina tutti, ma lo sguardo è sempre rivolto a terra come fanno i ragazzi imbarazzati di stare al centro dell’attenzione.
Se gli parli di Moore, apre i grandi occhi come se rivedesse le sculture che lo hanno innamorato e, dopo essere partito da più lontano, è senza dubbio di qui che è passato nel suo sforzo di ricerca e di creatività.
Ma ogni artista, pur avendo cari certi modelli, non è tale se non ha una sua personalità. Cortellazzo ha di suo la tenerezza. Quest’uomo massiccio s’avvicina al blocco di pietra, al bronzo, al marmo con una carica umana tutta particolare. Scolpisce con l’ansia con cui respira e le sue bestie, le sue creature magari parlanti solo con gli occhi, segnate appena dai tagli di luce, misteriose e palpitanti, portano dentro il silenzio solenne dei Colli Euganei.
Ogni sua scultura cerca il sole, come i rami delle piante che si protendono finché trovano il loro spazio nella luce, come gli alberi che vivono di aria e di raggi, come una creatura umana che, alzandosi al mattino e scoprendo il sole, sa che potrà affrontare la giornata con felicità.

 

GINO COVILI

Covili è nato alla pittura da solo, per una vocazione che gli urgeva dentro, per la coscienza di riuscire, attraverso il disegno e la pittura, ad esprimere quella sua partecipazione alla lotta e alla vita degli uomini, con i quali era cresciuto a contatto di gomito.
Covili ha qualcosa che gli è rimasto negli occhi, nel cervello, nel cuore di esclusivamente suo, di particolare, qualcosa che è soltanto dentro la sua terra di Pavullo, che Appennino emiliano e anche montagna.
Dai suoi primi disegni, dopo le prove e le scorribande obbligatorie della ricerca, dai tempi dei ritratti ai grandi quadri d’oggi che fanno parete, non trovate un solo personaggio che non abbia la pelle contadina, la grossa mano del montanaro, la forza dei muscoli di chi è abituato a spaccare tronchi, a lavorare nelle cave.
E’ tanto sicuro lui, Covili, di essere uno di loro, che in tutte queste figure ritrovi i suoi occhi sempre dilatati quasi atterriti per ciò che sta intorno: la povertà, la fuga da casa, il dialogo interrotto tra uomo e uomo, l’ingiustizia di cui si nutrono i potenti, l’iniquità quotidiana, la guerra in qualche parte del mondo.  

 

RAFFAELE DE GRADA

Raffaele Degrada portava sempre un disegno o un acquerello nascosto nel giornale: “Avete le pareti vuote qui nella redazione de l’Unità. Se vi piace. Eccolo”. Si sedeva, intimidito per lo stesso dono che aveva portato, sulla sedia davanti alla mia scrivania: “Continua pure a fare il tuo lavoro. Io mi diverto a guardare”. All’inizio bisognava strappargli le parole di bocca, ma poi fluivano come da un ruscello di acqua limpida. Raffaele aveva il volto e il carattere di quei santi antichi, che sono ancora onorati in effigie nelle capellette di campagna. Viveva in un suo mondo, dal quale niente poteva distrarlo.
Sulla pittura Raffaele dava segno di possedere una cultura autentica e su questa era rimasta intatta la sua  sottile vena di poesia. Parlava dei suoi studi in Germania, poi dei grandi lombardi e dei toscani. Aveva queste tre patrie spirituali con i rispettivi paesaggi dentro.
I suoi acquerelli e i suoi quadri riportavano, come fosse spinti delicatamente dall’aria che respiravano, quelle sue piante gonfie di vento nelle foglie e nelle nature morte, con quei colori patiti come fossero ispirati dai precordi, mantenendo quella sua ferma malinconia senza difesa, ma anche senza offesa, senza richiesta di consolazione.

 

LORENZO D’ANDREA

D’Andrea dipinge d’impeto. Ha il segno sicuro. Credo che per lui dipingere sia inseguire una musica che lo richiama e lo incanta. E’ stremato dopo ogni quadro perché dà tutto. Da questo viene fuori la verità: nulla gli è facile, non gioca, tutto è un bisogno intimo, una molla che gli scatta, una figura che deve nascere, un segno, un colore. Si direbbe che non ha tempo di vivere la vita di tutti i giorni, vive solo la pittura continuamente, come abbacinato.
I suoi colori cantano, sono gravidi di splendori più che di ombre, le figure si presentano spavalde, spesso si contrappongono, s’intersecano. La vita è multipla. D’Andrea crede alla metempsicosi, crede che la follia sia una virtù da inseguire.
Quando la guerra infuriava nel Vietnam e i bambini morivano, D’Andrea disegnava la guerra, l’orrore negli occhi dei bambini, i fili spinati come mani straziate, gli scoppi delle bombe come lo sfracellarsi del cuore.
Poi è andato in giro per l’Europa ha visto, ha studiato e ha dato ai segni e ai colori, alle geometrie dei quadri, alle figure quello che hanno dentro. Ha come rovesciato la tavolozza. Ora dipinge quello che gli altri non scorgono, libera l’inconscio, lo anticipa.

 

GIANNI DOVA

Conosco Dova da quando aveva il viso d’un ragazzo, anche se era già un uomo, perchè sapeva cosa vuol dire la fame vera, e cosa vuole dire libertà  a tutti i costi. Nella mia memoria, folta di volti di uomini e donne che ho incontrato nella vita in ogni parte del mondo, è rimasto ben chiaro quel suo viso di cerbiatto non spaurito, anzi quei suoi occhi che mi guardavano trasversalmente e mi dicevano il suo osare, il suo coraggio senza sbruffonerie per una volontà tesa a non volersi inchinare a nessuno.
La sua tenerezza è sempre mediata da una strana alterigia, che gli impedisce il decollo del sentimento. La ragione, anche quando Dova si intenerisce sulle ombre cocenti dei nudi di donna, è sempre vigile perché Dova sta sempre all’erta mentre dipinge, ritto in piedi. Vuole sempre darsi una spiegazione.

 

AGENORE FABBRI

Agenore Fabbri ha scritto in ogni parte del suo viso la parola dovere. Ha un volto che pare se lo sia modellato con le sue mani prima in cera, poi in ceramica, poi in pietra: le sue sono rughe così congeniali e adatte ad esprimere l’ansia che ha dentro, il cuore, il carattere. Il suo volto è perciò il modello per tutte le sue sculture. Un volto che soffre con rabbia. Un uomo che non accetta di trangugiare il dolore senza trovare il modo di contestarlo.
Ha imparato da bambino a dominare il ferro e la creta, a lavorare con il fuoco senza bruciarsi e se si scottava un dito o un braccio a non piangere, a reagire con una smorfia e uno sberleffo.
Per tutta la vita ha combattuto contro la violenza, per tutta la vita ha guardato fin negli angoli più nascosti della malvagità, quella del mondo e quella interna nel singolo uomo, conoscendola e soffrendola. Non ha mai avuto un attimo di esitazione: l’unica cosa da fare era schierarsi contro, combatterla senza tregua.
Quando mi diceva dei morti che aveva visto impiccati, dei ragazzi che aveva visto con gli occhi disperati stralunati nella morte, la bocca nel fango, lui soffriva ancora come se fosse suo fratello e suo padre, anzi, con l’angoscia urlata e lacerante come fosse sua madre. La madre di tutti.
Maledetta la guerra e gli uomini che diventano bestie e mettono gli artigli

 

BRUNO FANESI

Fanesi, anconetano fino alla punta dei capelli, marino e collinare come le Marche, nostalgie ed emozioni le rinchiude dentro e le tiene tutte per sé.
Le sue figure risultano immerse nel paesaggio fino a confondersi con le cose, con l’aria, percorse da un brivido. I suoi nudi, con quel colore che Fanesi ha studiato fino al raggiungimento dell’espressione più raffinata, non sono più nudi e le donne palpitano come i gabbiani quando a sciami sono strascinati dalvento. Nelle figure il mondo si rompe perchè l’uomo è salito negli spazi, perchè l’uomo ruota attorno alla luna e batte col suo passo sui suoi crateri.  
La pittura di Fanesi ti dà tempo per la riflessione, non ti sfugge dinanzi, non la leggi in fretta, è un segno che dura nel tempo.Cosa sta avvenendo in quei voli di scientifico, di scoperta, di rischio, ma soprattutto cosa sta avvenendo di umano? Come risolvere il contrasto tra l’uomo, che sulla terra ancora boccheggia nell’ingiustizia, e la sua corsa nel cielo?

 

PERICLE FAZZINI

Fazzini ha fatto parte dellaScuola romana che già nel ’27 si raccoglieva intorno a Dcipione, Mazzacurati, Mafai, a cui si sono aggiunti più tardi Melli, Capogrossi, Mirko, il givoanissimo Guttuso e Fazzini. Quei pittori per non accettare regole allora praticate per ragioni nazionalistiche e propagandistiche si sono scelsero il taglio espressionistico e la suggestività del barocco come in questo nudo di Fazzini.       

 

ANGELO FERRERI

Angelo Ferreri vive le sue giornate silenzioso e assorto nel suo grande studio di piazza Gramsci a Milano. Sente i passi della gente nel mercato comunale che sta sopra il suo studio.
I suoi partigiani sono ancora schierati e sofferenti: la liberazione non è ancora completa. Portano ancora a spalla i feriti. C’è ancora chi sanguina.
Come i suoi innamorati hanno sempre, nella disinvoltura innocente dell’amore, un’ombra di tristezza. Anch’essi cercano una libertà. Così i suoi ginnasti, plasticamente perfetti, riproducono la giovinezza della vita che vuole spezzare rassegnazioni, imposizioni, predicazioni che non possono più avere presa in un tempo, in cui tutto cavalca velocemente, anche se, forse più di ieri, sul fango di tanta ipocrisia e tanta viltà.
Molti anni fa Ferreri è stato incaricato di scolpire la testa dello scrittore Cesare Pavese da collocare  a Santo Stefano, al cospetto di quelle colline della Langa che lo scrittore piemontese aveva attraversato anche nelle sue opere. Ferreri prima declinò l’incarico, che tutti avrebbero accettato al volo, poi, sotto le pressioni, decise di provarci studiando prima, le opere di Pavese e i saggi su di lui. Ha colmato il suo studio di disegni e di prove finché ne ha derivato un volto di Pavese vivo, vero.

 

FRANCO FRANCESE

Franco Francese porta il cipiglio del bracciante vercellese e del protestario milanese.  L’impatto con una città-metropoli come Milano non è stata impresa facile per un piemontese testardo come lui. Si è difeso come un’istrice nei suoi colori, nei suoi segni, nel suo lavorare, fare e rifare, provare e distruggere.  
Ma quella luna, che prima era scoperta a portata di mano come il ventre caldo della sua donna perduta, acquistava mano a mano tra le case della città un afflato più profondo. Tra l’impasto e l’odore dei colori Francese ha ripreso a fare l’amore. L’amore con le tele e i colori.
La campagna gli rimane nei capelli arruffati, Milano la porta negli occhi, donde germina la liricità limpida nella libertà del dipingere.
Il suo discorso pittorico tormentato, aggressivo, diretto allo scopo ha esorcizzato la materia. Il colore per lui non ha più segreti: figurativo e informale si innestano senza rotture. La sua è sempre più esclusivamente pittura.

 

ACHILLE FUNI

Lo studio di Funi era un grande camerone alto di volta e contro i muri erano appoggiati, un po’ alla rinfusa, tanti disegni. Tutta la stanza era ingombra di tele bianche, recipienti con colori e gli attrezzi del mestiere che non aveva abbandonato anche quando aveva lasciato l’insegnamento. Al contrario di Carrà aveva un volto fresco, sorridente. Gli occhi accesi come i ragazzi.
Timido, di rare parole. Ascoltava molto. Appena entrati mi aprì una grande cartella dove c’erano i disegni e le fotografie dell’affresco di San Giorgio che era andato ad eseguire per il Palazzo Comunale di Ferrara.
Ravvoltolato per terra, coperto di leggero pietrisco, strappato ai lati, stava un grosso cartone.
Lo alzai e lo stesi sul grande tavolo a lato dello studio.“Mi piace”, gli dissi. “Non è Maria Maddalena?”  “Si, si, ma non l’ho finito, non mi diceva più niente”. “Allora te lo posso rubare!. Sarà un ricordo di questo nostro incontro. Un ricordo del tuo affresco di San Giorgio di Ferrara”.

 

ALBERTO GHINZANI

Ghinzani è uomo di pianura. Ha dentro un altro tipo di poesia dalla mia che è collinare. Aria di salici al vento, di canne riflesse nell’acqua. E’ nato in un paese dove si coltiva il riso e la sua infanzia ha visto la fatica di quelle mondine della Lomellina, a cui ho dedicato il mio romanzo Quaranta giorni e quaranta notti.
Ghinzani si è nutrito in questa terra d’acqua e nei canti delle mondine, nella fatica dannata e gli sono rimasti i ricordi degli spari contro i braccianti e gli urli dei caporali che dovevano sfruttare l’energia umana per i profitti dei padroni che vivevano nei palazzi di Milano sotto stemmi gentilizi.
Ghinzani voleva andare alla radice della fatica come delle piante e dell’acqua: non erano i tronchi delle piante, le radici contorte a spiegare l’anabasi , il lungo itinerario umano commisto a quello della natura?
I disegni e le sculture di Ghinzani non tracciano neppure il profilo dei rami, ma i geroglifici dei rami lasciano negli sfondi d’ombra  e di luce, le loro fantastiche creazioni che si snodano come note musicali in un paesaggio che pare in sé concluso ed è infinito.

 

PIETRO GHIZZARDI

Durante un viaggio a Luzzara, paese di Zavattini, e a Gualtieri, paese di Mazzacurati e di Ligabue, ci fermammo a Boretto, dove Ghizzardi dipingeva con la stessa tenacia e orgoglio con cui un contadino allinea i solchi per il granoturco. Ligabue era il suo antagonista.
Anche su Ghizzardi era stata costruita una leggenda metà fatta di pettegolezzi e metà di fatti accaduti. Si diceva che fosse stato svezzato dalla madre quando faceva già le elementari e che il seno delle donne gli fosse rimasto in testa come il desiderio più acuto, una fissazione che tornava ogni volta che si disponeva a disegnarne una o a dipingerla. Li voleva e li vedeva sempre grandi, sproporzionati. I seni di una madre capace di allattare tutti i bambini del mondo.
Con le pupille spalancate sui seni, Ghizzardi riusciva a dare forma agli occhi, al viso, alle mani, a fare il ritratto della donna quasi sempre somigliante.
Nella casetta, dove dipingeva, non c’era pezzo di muro, né esterno né interno, che non portasse raffigurazioni: donne, galli, galline, macchine sventrate,  piante cariche più di uccelli che di foglie, prati di un verde tenero, consunti, come quando per la troppa pioggia l’erba comincia a ingiallire anzi tempo.
C’era anche un cartone con sopra dipinto un Cristo vestito da pastore, il volto magro, leggero, che camminava sulle acque del Po.

 

ALBERTO GIANQUINTO

“Ho letto il tuo libro Veder l’erba dalla parte delle radici e dopo le prime pagine ero tentato di fermarmi, perché sentivo il cuore che recalcitrava, quasi che anche a me si preanunciasse l’infarto. Poi ho capito che il libro è un inno alla vita. Però una cosa non ti è tornata: il gusto di godere il fumo dei tuoi sigari toscani, di assaporarli interi. Allora mi sono detto: voglio fermare su un pastello il momento della volontà di non più fumare e insieme la pena di Sisifo. Così ti ho disegnato i sigari e il relativo fumo che sale. Sarà un ricordo malizioso del mio affetto”.
Gianquinto viene dal mare di Venezia, dalla luce, ma anche dalla storia e dalla profonda cultura di quella città. Si è aperto alla vita e all’arte quando Guttuso bruciava il suo entusiasmo resistente e Vittorini gridava se si era uomini o no.
Gianquinto ama i grandi spazi. Il mare lo ha abituato senza confini, il fumo del sigaro a non aver mura dinanzi né barriere, né steccati, né schemi ideologici.
Certo Gianquinto sente il mare borbottare e poi frangersi e urlare lontano, sente attorno salire le ombre, addensarsi la violenza della tempesta. Ma anche nella notte un uomo è vivo se lo vuole, anche nel buio riesce a pensare e poi è proprio la notte che ha i misteri che svelano il giorno.

 

GIUSEPPE GORNI

Ecco davanti a me Gorni con i suoi baffi bianchi, grigi i capelli, gli occhiali ad allargare le pupille degli occhi, non come li portano gli intellettuali, ma i contadini di paese quando vogliono leggere le parole piccole sul giornale.
Gorni porta un vestito dimesso, ha la voce quasi flebile e davanti a casa un nugolo di bambini  lo salutano a larghi gesti affettuosi delle mani, rimanendo fermi quando noi entriamo dietro al cancello di ferro, che divide la sua casa dalla strada. “Ecco”, mi dice Gorni lentamente, “quei volti li ho riflessi in queste teste di creta”. E mi fece vedere gli straordinari disegni preparatori.
I primi disegni di Gorni destarono l’attenzione di Margherita Sarfatti e di Soffici. Lo vollero conoscere, Gorni, timoroso e preoccupato, dopo mille incertezze, si decise a presentarsi con un gruppo di disegni. Furono molto apprezzati. Sia Soffici che la Sarfatti lo invitarono a collaborare. Ma Gorni era nato in un paese del Mantovano di braccianti antifascisti e Mussolini diceva e faceva cose che erano contro gli interessi dei suoi compaesani. Non accettò l’invito, fuggì da Milano e tornò a nascondersi nel suo borgo.

 

PIERO GUCCIONE

Piero Guccione, contrariamente da Ennio Calabria, anziché immergersi nel politico, nei fatti della vita convulsa di questi anni, si è arroccato nella contemplazione attiva. Isolano: siculo non lo è soltanto nel calore che lo accende ogni volta quando la nostalgia gli riporta alla mente un’immagine della terra madre, e non lo è soltanto neppure nel colore che è riuscito a stemperare leggerissimo tra alba e tramonto. La rarefazione di Guccione si incontra con la realtà non per distruggerla, ma per farla vagire come se nascesse ad ogni alba, ad ogni pennellata, in ogni segno, lo spinge a continuare a cercare un colore che si immerge in prospettive sempre più lontane.
Piero Guccione prende così il viso della sua pittura. Parlando con lui ti accorgi che la sua malinconia è segnata nel profondo. Non è soltanto nostalgia della Sicilia, del suo mare, è qualcosa di più composito e di più intimo come nei suoi disegni in bianco e nero. Guccio non disegna, tocca appena la carta e la tela quasi avesse timore di infrangere il bianco, di rompere il silenzio. 

 

GIUSEPPE GUERRESCHI

Con Giuseppe Guerreschi o ci si lega spiritualmente, cioè ci si intende con l’intelletto e con tutti i sentimenti, o non lo si potrà capire né nella sua pittura né quando illustra i “proverbi cinesi” né quando ha bisogno di unire ai disegni i suoi versi di poeta, né quando dice che la perdita di un amico è come una fucilata che, se non ti uccide, ti lascia vuoto di sangue. Quando ha saputo che volevo scrivere qualcosa su di lui mi ha detto: “Hai saputo come è morto l’amico Montaldi? Parla di lui non di me. Gli devo molto. Era...” Poi ha detto il resto con quella pausa di commozione, che rompe il cuore. Danilo Montaldi è scomparso una notte tra acqua e vento.
I ritratti non ripetono soltanto, persino nei particolari, le donne o i personaggi che Guerreschi ha preso a modello, ma sono soprattutto ritratti dell’anima. Ricompongono la fisionomia della loro esistenza. Sono ombre e luci, sono la vita con le sue contraddizioni, sono la poesia che nasce più dalla sofferenza che dalla gioia, anche se la poesia è sempre liberazione e felicità. L’artista soffre per tutti e il silenzio è nel cantare con tutti.

 

RENATO GUTTUSO

L’incontro con Guttuso avvenne nella sua terra. Ero stato designato dal mio partito come uno degli oratori che dovevano partecipare alla campagna elettorale del 1946 per la prima elezione del governo regionale della Sicilia. Mi colpì subito lo sguardo attraverso i suoi occhi scuri e grandi con dentro lo stupore e l’innocenza dei bambini, occhi con riflessi lucenti, un nero che brillava. Sembrava che nel brillio di quelle pupille splendesse tutto il sole della Sicilia.
Guttuso è un pittore trionfante. Il suo essere tale deriva dall’aver superato, fin dagli anni giovanili, i suoi abbattimenti ed i suoi dubbi, scontandoli duramente nella fatica e nel sacrificio con straordinaria forza d’uomo, con impulsiva spavalderia, con splendida generosità, con scatti polemici spesso adirati, poi stemperati nell’autocritica  meditata e convinta.
Guttuso non può sopportare schemi o barriere. Ha troppa personalità per essere incasellato in questo o quell’”ismo”. Persino il neorealismo, di cui è stato alfiere, gli è stato stretto già dalle prime prove e subito s’è aperto ai suoi moduli, alle sue liriche impennate, alla sua sanguigna intima volontà di reinventarlo. Se non esplodeva in un grumo di poesia si sarebbe considerato buono per un mestiere, non un artista creatore.

 

IBRAHIM KODRA

Il pittore Ibrahim Kodra è attraccato a Milano provenendo dall’Albania. Forse è l’esempio più lampante di come la Milano popolare, la Milano di Brera sa non soltanto accogliere, ma dare carattere milanese anche a chi vi giunge da oltremare.
Kodra è rimasto impastato di terra mediterranea portandosi, come un antico cantore, memorie dei padri, incancellabili quasi gli fossero stratificati dentro.
Ha vissuto a contatto con tutta la pittura sul piano internazionale, ma la sua “alchimia” è fatta di segni semplici e perciò magici, di colori che sono sempre visti come trasparenze di mare tanto che si potrebbe accusare Kodra di assenza dalla realtà, di assenza dal mondo, di inseguire mitici sogni. Nessuno ha potuto mai chiedere a Kodra di uscire dal suo mondo fiabesco e di accompagnare il tempo della vita; uomo e nume per lui sono un unico impatto. Per lui anche i tabù si umanizzano, la luna e il sole li intona ai suoi colori.
Il suo modo di partecipare come pittore alle tumultuosità della vita è di rendere presente oggi il passato degli uomini e della natura, difendere l’arte dai raggiri di chi l’adatta anche troppo ai venti e estranei che soffiano senza posa.

 

PIERO LEDDI

Piero Leddi è piemontese come me, anche se il mio paese sale sui bricchi e il suo, San Sebastiano Curone, si distende nella piana di Tortona.
Nel suo studio, al terzo piano di via Canonica la strada dei cinesi a Milano, non riesci a passare tra tele fresche e oggetti accatastati, statue, libri e sedie impagliate. Sembra la stanza di un lago disordinato, che vive mangiando le stelle e abbandonandone frammenti sul pavimento, come salire su certi nostri sentieri, abbarbicandosi ai cespugli.
Leddi parte sempre dalla pittura (di questi tempi non è pleonastico ricordarlo) per approfondire ogni segno con costanza certosina, dando alla luce, al colore, ai profili e ai sentimenti quello che può dare un pittore che non cerca maestri nei contemporanei, ma è invece cosciente di dover assimilare quello che hanno costruito nei secoli pittori “sacramento” come lui, perdendo nel faticare la vita per lasciare di sé soltanto la creatività. 

 

FAUSTO LIBERATORE

Con Fausto Liberatore l’incontro avvenne nelle aule di Montecitorio quando eravamo entrambi deputati. Per quattro anni non ha mai fatto parola di essere pittore, ma un giorno mi accompagnò in una galleria di Roma a vedere una sua mostra. Non fu una rivelazione: disegni e dipinti somigliavano a Fausto. Il suo modo di intendere la vita, le cose, di giudicare i fatti. C’era una cura e una sensibilità tutta sua, quasi la preoccupazione di rivelare quello che era un segreto.
Rinunciò alla carica di deputato, preferendo, come disse lui, di lasciare posto ad altri più accaniti di lui nella politica e tornare al suo mestiere.
Ci siano incontrati di nuovo nella sua Versilia, anche a Roma e a Milano e sempre i suoi dipinti erano chiari e pieni di sentimento e di intelletto come i suoi occhi azzurri. Ritrovava sempre nuovo slancio, creatività: non solo i nudi, ma le donne vestite, i bambini, i suoi giochi liberty calcolati fino all’ultimo segno,  i colori intrisi d’anima nei suoi paesaggi.
Lautrec, Cézanne, Manet gli stanno dentro come i libri che non puoi dimenticare.
Un giorno fece anche il mio ritratto con una bella dedica.

 

 ANTONIO LIGABUE

Quando andai con Mazzacurati e Zavattini a Gualtieri Ligabue non c’era. Era andato chissà dove in cerca di una donna che lo faceva dannare, senza concedersi mai, e lo condannava al ludibrio di chi lo definiva il tedesco matto, il pittore stravagante, il disperato delle seghe fino a rimanere stremato come un toro quando è costretto a consumare tutte le sue energie. Lo trovammo all’indomani.
Da ogni parte, nello stanzone in cui lavorava, erano dispersi pennelli, fogli di carta, lamiere, tele rimaste a metà e tele compiute. Anche sui muri erano dipinte figure, forse più vivaci e genuine di quelle che riprendeva su tela e sui cartoni. Le bestie feroci parevano scendere dalle pareti per azzannarci.
Gli occhi di Ligabue erano perversi, salvati nello sguardo soltanto da una malinconia desolata, sgranati sul grande naso graffiato, la bocca un po’ storta.
La gloria e il successo a Ligabue vennero dopo la sua morte. Quella morte che Zavattini descrive nel poema tragico e amoroso che gli ha dedicato. La sua morte fu profitto per quelli che l’avevano sempre sfruttato, che avevano comprato i suoi quadri per quattro lire, quelli per cui era il tedesco, il pazzo, il segaiolo. Non fu gloria per lui.

 

GIACOMO MANZU’

Manzù è l’arte e la poesia. Manzù, il “gran lombardo”, è  germinato nella natura campagnola, lui che aveva il padre destinato ad arrugginirsi sul deschetto da calzolaio in una stanzetta buia. I dodici fratelli di Manzù non potevano neanche trovare tutti posto in quella stanza. E allora via, fuori, nella strada, nell’aria dei campi, a correre per i prati. Se la società matrigna aveva dato poco pane essi erano come uccelli, come le farfalle, egualmente invasati di felicità.
Anche quando cominciò a distinguersi e lasciò Bergamo per Milano, quando le sue mani e il suo cervello cominciarono a dare frutti prodigiosi, Manzù aveva ancora a fianco la povertà. Era ancora costretto a disegnare sulla carta da macellaio, perché non aveva i soldi per comprarsi la carta Fabriano. Eppur già allora nascevano dai suoi disegni volti che parevano guardarti e parlare.
Bergamo ha il suo volto chiuso, grintoso, taciturno, ma è sana, nerboruta, operosa come le sue mani, le sue braccia. Da qui le sue figure come se le estraesse di dentro, come Dio dalla costola di Adamo. Un continuo insistente autoritratto.
Tutti hanno parlato del rapporto familiare di Manzù con Giovanni XXIII, il Papa della Pacem in terris. Non li legavano soltanto Bergamo, la struttura fisica, l’intelligenza creativa e l’umanità, che in entrambi erompeva al di sopra di tutto, era l’ansia della pace ad unirli.

 

CARLO MATTIOLI

Il dipingere di Mattioli è meditato, ripreso, ristudiato, tutto intriso di poesia, sillabata nell’essenziale di momenti folgoranti, con quel sole così lontano che non può trapassare l’ombra cupa, che spande attorno la pianta, col profumo della campagna che s’effonde nei suoi colori tenerissimi.
Quasi tutti i critici, quando scrivono di Mattioli, fanno due nomi: Petrarca come poesia e Morandi come pittura.
Dai misteri dei bianchi e neri in cieli lunari, Mattioli è passato ai bagliori dei gialli, dei neri, dei rossi, dei bianchi. Dal silenzio al grido, sempre rigoroso nel linguaggio, nel colore, prima tenue, ora grondante di vita
Posseggo un acquerello di Mattioli, uno dei suoi alberi solitari. Ricordo che me lo ha dato mentre guardavo il Duomo dalla finestra, sulle scale del suo studio, e mi ha detto che di lì lui poteva parlare con la luna e la città.

 

MARINO MAZZACURATI

Mazzacurati era sempre pieno di brio. Ogni volta sciorinava quei suoi sfottò pungenti ma sempre affettuosi che non avevano nulla da invidiare alle trovate di Ennio Flaiano. “Mazza” aveva un fisico d’atleta, un bel viso fiero come quello quelli che si vedono ritratti nei suoi monumenti importanti, un volto più greco che romano. I suoi occhi erano un nido di amicizia con i riflessi del cielo quando è completamente  azzurro. I denti splendevano bianchissimi e la testa di capelli pareva incoronarlo.
“Uno scultore deve essere forte anche fisicamente”, ripeteva spesso e mi mostrava i suoi muscoli da lottatore. Tra noi si creò tale amicizia che, nonostante l’usura della parola, definirei fraterna. Mazzacurati aveva cominciato a mostrarmi i suoi lavori, anche le tele dipinte ai tempi in cui compilava quasi interamente la rivista “Fronte”, espressione della scuola romana di cui era grande parte assieme a Scipione, Mafai e la moglie Antonietta Raphael.
Dell’emiliano gli era rimasta intatta la cordialità, lo spirito allegro, il gusto di vivere.
I suoi incontri con Guttuso erano quasi settimanali. Tutti e due amavano la buona tavola e il buon vino e le discussioni si accendevano a voce alta. Da veri amici non si lesinavano le critiche l’uno con l’altro. Mazzacurati accettava il neorealismo, ma discutendolo e discriminandolo da ogni proaganda: “I politici sbagliano quando, invece di capire, vogliono proporre all’artista quanto dovrebbe fare”, ripeteva spesso. Le dispute finivano tutte in brindisi e canti. Mazzavurati tenore, Guttuso e io baritoni.
Si spense ancora giovane, aveva chiesto di essere portato in un ospedale di Parma quando aveva capito che poteva contare sulle dite di una mano le albe che gli restavano prima di precipitare nel buio eterno. Per arcano richiamo il suo partigiano ucciso sul monumento della Resistenza di Parma aveva scolpito il suo ritratto.

 

FABRIZIO MERISI

Fabrizio Merisi mi sta di fronte con i capelli nerissimi che gli incorniciano un volto pallido. Un Cristo non sulla croce, ma certo nell’orto di Getsemani, dove medita quanto gli costa rischiare di essere uomo.
Merisi è un meditativo. Le parole gli muoiono in bocca. Anche quelle che sono di moda per dire dell’alienazione, della realtà politica e sociale così contraddittoria e per certi aspetti repellente, addirittura disarmante. Il suo è il pessimismo dell’intelligenza che si unisce all’ottimismo della ricerca.
Partendo da qua i suoi lavori diventano leggibili e aperti, ti spieghi i suoi colori, che tendono anch’essi ad andare alle radici del vero, i suoi gialli scoperti nella loro formazione, come i bianchi calcinosi, come gli scuri che sanno di ombra non di pece. Ecco l’equilibrio tra colore e disegno, tra forma e contenuti. Allora gli acquari, in cui il pittore racchiude oggetti inanimati e animali che nuotano nella luce stinta, rapidi e leggeri gli uni e gli altri, sono il simbolo di una ricerca di verità e di vita.

 

PIETRO MORANDO

Morando, alessandrino, gli occhi accesi come lumi nella notte, piccolo e tutto nervi, è diventato pittore nella bufera della guerra del ’15-18. Partito volontario nel corpo degli Arditi, era stato catturato e mandato in prigionia in Ungheria. Lui, in terra d’esilio, procurandosi carboncini e carta a costo di scambiarli con il poco cibo, aveva cominciato a disegnare i volti della paura: soldati contadini, fermando l’attimo della fucilata che li colpiva a morte e lo strazio dei loro corpi abbandonati a corvi.
Tornato dalla prigionia, Morando si chiuse nella sua città, incupita d’inverno nella nebbia, e cominciò a sostituire il carboncino con i colori. I suoi dipinti perdevano il grido acuto della tragedia per ricercare nel grigio, nel colore del piombo l’amara quotidianità del vivere, quella del viandante in cerca di un pezzo di pane e di altri poveri esseri umani.
Aveva studiato meditando il divisionismo di Previati e Angelo Morbelli e si era recato spesso in pellegrinaggio con Carrà a Volpedo, il paese dove aveva lavorato e si era ucciso il grande Pelizza.
Nonostante i richiami di Roma, Milano e Parigi, dopo aver fatto anche l’esperienza di un viaggio in Sud America per accompagnare Josephine Baker, Morando si  rinchiuse nel suo studio di Alessandria, sotto i tetti di via Parma  e rifiutò le mostre.
Il colpevole, o il meritevole, di aver fatto conoscere la sua pittura, costringendolo affettuosamente ad esporre, sono stato proprio io, quando Morando era ormai vicino agli ottant’anni.

 

GIUSEPPE MOTTI

Nelle sue tele e nei disegni ritornavano sempre i pescatori o i sabbiatori stremati di fatica. Motti l’ho sempre visto come un barcaiolo navigante sul Po, anche quando più tardi dipingeva le periferie milanesi o le strade del centro.
Non si tolse mai la giacca da operaio, da uomo semplice. Chiuso nel suo studio, mentre a Milano tumultuavano i fatti, Motti faceva, su certa carta gialla che aveva già il fascino del colore delle foglie e della terra bruciata, grandi disegni in bianco e nero. Allora i suoi barcaioli, i suoi pescatori affaticati apparivano come i pescatori apostoli di Cristo, che portavano, nonostante il peso della fatica, la buona novella.

 

GINO MELONI

Pittore varesino, in gioventù s’innamorò della Brianza, s’incantò nei colori e affondò le radici nella vita quotidiana della gente.
I suoi primi paesaggi, quasi timoroso di saper dare quell’incendio di colori che vedeva attorno, Meloni li dipinse con colori stemperati quasi volesse esprimere soltanto la profondità, addirittura il profumo. Poi fu con i figurativi, s’accompagnò a Tettamanti, alla Ramponi, a Birolli, Dimostrò di sapere intendere e far intendere il neorealismo non perdendo quello che vi era di fantastico nella sua personalità, finché arrivò al crepitio dei colori, ai suoi gialli inimitabili, che avevano dentro il rauco grido della campagna.
Chi osserva le sue opere si sente coinvolto, preso dentro il suo candore che s’innesta talvolta nell’ironia e talvolta in accorata denuncia. Meloni non si adira, non grida, anzi nel gioco splendente dei colori avverti che ti vuole dare innanzitutto gioia e, solo dopo, con i suoi segni, con le sue figure, con i suoi titoli nello stile del più semplice sillabario, ti costringe a pensare, a riflettere.
I suoi disegni sono sicuri e limpidi, anche quando si affidano ai semplici segni in bianco e nero.

 

FRANCESCO MESSINA

Messina è uno dei tanti siculi saliti al nord, come Vittorini e Quasimodo, ed entrati dentro la vita di Milano anima e corpo.
I suoi occhi attenti, furbi, sempre vivi e giovani, che dicono la sua bravura di uomo, che sa difendere un ruolo e un prestigio a qualunque costo, teso sempre ad adeguarsi al mestiere di vivere.
I primi incontri con Messina avvennero nel suo grande studio di Brera. La sua affabilità sorridente, sempre aperta, attenta riusciva con semplicità a farti entrare nei recessi delle sue opere.
Non voleva spiegare nulla di quei pugilatori a muscoli scoperti, di quelle ballerine dal passo aereo, delle dame opulente e delle figure acerbe e provocanti delle fanciulle tenere come giunchi.
Un giorno Messina mi portò per mano nelle sale della sua fondazione: “Devo darti un ricordo”, mi disse. “Ho letto quel racconto sul padre nel tuo libro Come e perché e mi è venuto di modellare la testa di tuo padre contadino. L’ho costruito attraverso la tua descrizione e mi pare abbia i segni della fatica e dell’amore”.

 

GIUSEPPE MIGNECO

Migneco è salito a Milano da Messina, quasi ombelicalmente legato a Salvatore Quasimodo, per un’amicizia che andava al di là della stessa aria che hanno respirato e del loro mare che hanno portato negli occhi con repressa nostalgia.
Migneco, forse più convintamente di tutti, s’è imbucato a Milano a respirare nebbia. Nel ventre della città ha succhiato altro sangue popolare. Migneco teneva sempre i suoi quadri voltati contro le pareti, quasi volesse che non fossero osservati.
Mantenne sempre il complesso dell’emigrante. La sua terra la portava dentro e non c’era distrazione a fargliela dimenticare. Soprattutto l’attaccamento alla sua gente, taciturna e rassegnata: le donne del sud, i braccianti, contadini, bambini spauriti pieni d’occhi e di fame. La sua non era soltanto nostalgia, era protesta.
Con le quindici tele su ispirazione di poesie contadine russe Migneco ha scavato nella miniera di immagini e sensazioni fino a farsi sanguinare le mani. Ne è nato un impatto tra disegni e colori, tra donne e cavalli, tra guerrieri e credenti, tra volti rugosi e fioche lucerne, tra luci e ombre, tra azzurri e rossi.

 

GABRIELE MUCCHI

Serio, elegante per naturale distinzione, Mucchi aveva sempre costantemente al suo fianco un altro artista di talento: la scultrice Genny. Era una donna silenziosa, di sensibilità squisita, esile nel fisico e vigorosa nelle opere, a cui dava la sua tenerezza e la sua forza, fondendole insieme. Gabriele, per proteggerla come donna, talvolta la oscurava come artista.
Mucchi è tutto nella costanza del sentimento e della ragione. Ripudia delle libellule che oscillano al vento della moda. Impegno e coscienza, estremo rigore. La costanza è il segno indicatore della sua vita e della sua pittura.
I disegni e le tele di Mucchi riportano a un particolare tempo, fanno la storia dei nostri anni. Molti vi hanno scoperto i drammi pittorici del Caravaggio ed è vero che Mucchi li ha studiati, assimilati in anni lontani.

 

LUIGI TERZI “NERONE”

L’incontro più straordinario proprio nel paese in cui soffrì Ligabue è stato quello con Sergio Terzi, che per firmare le sue tele aveva scelto lo pseudonimo di Nerone. La scelta del nome era legata ad una vicenda che l’aveva visto protagonista di un incendio di protesta quando aveva incenerito una chiesa sconsacrata, dove lavorava come falegname.
Nerone aveva visto, con gli occhi innocenti dell’infanzia, il volto squallido della miseria e dell’abbandono, ma nell’intimo era stato generato con sensibilità superiore al normale. Era sempre nella tempesta come se la sua testa fosse l’obiettivo di continue grandinate fatte di chicchi grossi come noci.
Visse molte avventure altrove e, quando ritornò a Gualtieri, vide come in una visione l’arcobaleno di colori di Ligabue. D’improvviso la passione gli scoppiò nella testa come una bomba e, di getto, cominciò direttamente col pennello a colorare il paesaggio, che aveva negli occhi chissà da quanti anni. Poi tentò la figura. Dipinse un bosco e in mezzo uncacciatore con il fucile a tracolla, di spalle. Certo un cacciatore di frodo.
Volle dipingere anche la “Via Crucis” degli ubriachi con tutte le stazioni come quella di Cristo. Quadri enormi con i personaggi delle sbornie della bassa, con i colori e le facce avvinazzate, la malinconia del vino, i tavoli scuri delle trattorie, i gatti appollaiati insieme ai galli e, sotto ogni sedia, il rimorso dei mostri. Mostri diversi dalle belve di Ligabue. Erano la tentazione e l’inferno..

 

ARMANDO PIZZINATO

Dire Armando Pizzinato è dire Venezia nei tempi in cui il fervore artistico accendeva la città con Vedova e Santomaso, è ricordare il ristorante dell’Angelo con le pareti pieni di quadri, dove il proprietario Carrain amava di più far conoscere gli autori di quelle tele che presentarti il menù.
Pizzinato aveva gli occhi azzurri come il mare di Venezia, le guance scavate, gli occhi sorridenti, ma inflessibili. Davanti ai suoi quadri le sue pupille prendevano luce come i suoi dipinti.
Un tempo Pizzinato era intriso di Picasso e dell’uragano delle immagini cubiste, poi ha ricominciato da capo con le figure dipinte quasi a colpi di piccone, come i lavoratori che rappresentava.
Ora le sue opere sono tornate a inondarsi di luce, i colori hanno ripreso forza e tenerezza, un percorso travagliato che caratterizza l’uomo e l’artista. Le parole della sua poesia sono fatte di colori che intridono.

 

AMELIA PLATONE

Amelia Platone viene dalla scuola di Casorati e del grande pittore ha assimilato il sentimento profondo delle cose, ma ha preferito insistere sulle figure, avvicinarsi alle donne, ai ragazzi con la stessa trattenuta emozione del maestro.
Quando è venuto il tempo della Sicilia, Amelia si è scontrata con quei colori, con quei riflessi di sole cocente e così diverso dallo splendore lento delle colline dell’Astigiano, dove il verde resiste e l’aria leggera della sera accompagna i pensieri. La sua pittura si è fatta più calda, sempre attenta nella forma, rigorosa ma con una passione e una tensione nuova.
Amelia ha resistito al dolore, quando è precipitato nel buio il padre delle sue bambine. La pittura l’ha salvata, è stata vita. Sicilia e colline astigiane si sono fuse: i paesaggi hanno preso l’incanto del sole, del vento, il colore che hanno gli oggetti.  Le figure femminili, che riprendono le prove della Platone dalle radici, splendono di un ardore nuovo come se Amelia avesse riscoperto una sua zona di felicità.
La pittura si è affrancata dalle passate esperienze, esce morbida, tenera dal distacco dei tempi casoratiani, ora è partecipazione, invito alla vita palpitante come gli occhi innocenti delle sue figliole.

 

DOMENICO PURIFICATO

Purificato ha ormai i capelli increspati di bianco alle tempie, ma gli occhi sono sempre lucenti. E’ ancora il bell’uomo, cui guardavo con curiosità. Ci sovrasta tutti con la sua testa sventolante.
E’ anche un organizzatore un maestro, ma è rimasto soprattutto innamorato dei colori e del disegno.
Porta sempre e dovunque la semplicità della sua terra ciociara. Ha fatto fatica, sopportato sacrifici, è stato al centro di scontri, ma ha affrontato tutto con ottimismo.
A Purificato piace la gente viva, che combatte. Tutti i suoi dipinti, dai ritratti ai paesaggi al ritorno ai temi mitologici, hanno dentro questa esigenza, questa volontà, anche a costo di rischiare un tantino di retorica.
Da quando faceva i primi approcci nella Scuola romana a quando stava con Guttuso sempre alla ricerca di una integrità tematica, è rimasto innamorato della figura, presa dalla natura, dalla vita.
L’ho seguito nei mesi in cui preparava le opere per una mostra, al centro della quale compariva un grande dipinto di tre metri per due “La morte di Pulcinella all’assedio di Gaeta”. Ho seguito passo passo l’apparire delle molte figure, dei loro gesti, la luce trasparente degli occhi, e vi ho scorto il rapporto insistente con la grande pittura di Masaccio.

 

FRANCO ROGNONI

Nello studio milanese di Franco Rognoni c’è un’aria di festa. Festa di colori, di figure, di cieli aperti. I mostri di Grosz, le oriniche smorfie di Maccari prendono nella pittura di Rognoni un’aria di gaiezza. Sono divertenti, si lasciano guardare, ti prendono in giro con garbo, si spogliano e ti spogliano dei loro e dei tuoi vizi, ma non usano la frusta né il cilicio. Con Rognoni il tragico lascia decisamente il posto all’ironia.
Rognoni non osa dire la parola poesia, eppure si sente che ha una visione lirica della vita e delle cose. Il suo lirismo è impastato di cose semplici come il pane, la donna, il voler bene, i fiori, ma anche la terra, il cielo, anche gli oggetti più insignificanti.
(...) la poesia non è un'arma che conta più del livore? Rognoni ci crede.

 

ALIGI SASSU

Sassu era multiplo come uomo e come artista. (…) Gli piaceva dissertare, non aveva né certezze né parole d’ordine precostituite. (…)
I suoi colori hanno una fisionomia inconfondibile. Per fortuna sono ancora abbastanza numerosi i pittori che amano la vita e gli uomini, ma non sono molti quelli che vi entrano dentro come Sassu. Dipinge mentre vive e il suo vivere con la memoria, il suo voltarsi indietro non è altro che continuare il discorso a distanza. (…)
Hai dei periodi in cui dipinge scontroso. Allora appare irriconoscibile. Il reale non si fonde più con la fantasia, i suoi segni sono grezzi, smitizzati, come se improvvisamente avesse trovato un incastro, come se avesse dimenticato tutto quello che aveva fatto prima.

 

GIUSEPPE SCALVINI

A Scalvini serve soltanto, forzatamente, l’indispensabile per vivere, per questo ogni tanto deve separarsi con dolore dalle sue statue. Sta costantemente immerso nella musica, l’ascolta con rapimento, scultura come musica nell’impasto del suo volto aperto, del suo animo generoso. Milanese fin nel colore della pelle, nel gesto, nelle parole, Giuseppe Scalvini porta dentro di sé il cervello e il cuore della città.
Scalvini parla, ma è come se fosse un sottofondo a quello che dicono le idee che egli ha costretto nei suoi bronzi, nei suoi legni, nelle sue cere. Non c’è bisogno che ti chieda se senti emozione. Se lo chiede è quando ha già avvertito che le sue “maternità”, i suoi “amanti”, le sue “famiglie”, le sue “grida” ti hanno fatto intendere che s’è imbiancato i capelli in quarantacinque anni di lavoro, ma soprattutto di meditazioni.

 

CARLO SOMMARIVA

Parto subito dalla confessione che non riesco facilmente nell’arte informale. Quando dico che non riesco a leggere voglio significare<

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