Associazione Davide Lajolo Odv

Saggi

11/10/2018

La figlia di Ulisse

di Laurana Lajolo

Il legame tra me e mio padre è segnato dalla poesia fin dalla mia nascita. Per la mia venuta al mondo ha composto una poesia, che inizia così: “Quando novembre è ancora vivo di sole/ dolce novembre/ sei venuta Laurana nell’ora lunare a recare primavera di sangue giovane”. E si chiude con  “Tu nata d’autunno/ a fare primavera”.
Quel tocco di primavera nell’autunno l’ho sempre sentito come un risarcimento poetico alla mia data di nascita il 2 novembre, il giorno dei defunti e, nella tradizione contadina, la notte delle masche.Mio padre avrebbe voluto un figlio maschio e quindi, fino a che non sono andata a scuola, ho portato i pantaloni e il berretto da carrettiere e quei vestiti hanno sicuramente influito sulla mia autopercezione. Ero una bambina che doveva assolvere anche ai compiti da maschio.

Mentre Ulisse faceva il partigiano sulle colline del suo paese e scriveva poesie per la sua bimba per non perdere l’umanità nella furia degli spari, anche mia madre e io abbiamo combattuto la nostra guerra. Avevo due anni e Rosetta, dopo il terribile rastrellamento del freddissimo dicembre del 1944, ha dovuto nascondermi in una tana, piccola e bassa, sotto la stalla delle capre. Con il suo sguardo imperioso è riuscita a impormi il silenzio perché fuori c’erano gli uomini cattivi.  Rimanemmo tutte e due accovacciate e impietrite per il tempo della perquisizione e, forse, Rosetta lasciò in quella tana la sua giovinezza.
Mia madre, donna forte e coraggiosa, è stata la spina dorsale di Davide, l’uomo della sua vita che ha amato con passione, ma senza perdere la sua autonomia e la sua capacità di critica. Conoscendo bene le debolezze del marito, lo ha sorretto nei tanti momenti cruciali della sua vita con buon senso, concretezza e tanta tolleranza.

Già a tre anni mio padre mi portava spesso alla redazione dell’Unità di Torino e il mio gioco era imparare a scrivere in stampatello copiando le lettere dal giornale. La segretaria, per evitare che usassi il suo rossetto come matita, aveva preferito insegnarmi a scrivere a macchina.

Ancora poesia quando, dopo una separazione di due anni, la famiglia si è riunita a Milano. Avevo sette anni e dopo pranzo, per ricomporre la nostra consuetudine di vita, mio padre ha pensato di leggermi i suoi poeti preferiti: Gozzano, Ungaretti, Quasimodo e in spagnolo Lorca e Neruda. Ovviamente io non capivo tutto, ma di fronte alla sua voce possente e calda mi sentivo in un luogo fantastico.
Ed essere la figlia di Ulisse mi ha dato anche il privilegio di ascoltare per prima le filastrocche e le storie fantasiose di Gianni Rodari nella redazione de L’Unità di Milano.
Mi sentivo importante quando, qualche volta, ero citata nei corsivi di Ulisse.
Mi piaceva andare in redazione perchè i redattori mi vezzeggiavano, ma anche perchè, pur bambina, seguendo con curiosità i commenti ai dispacci che arrivavano per telescrivente, mi sentivo partecipe dei grandi fatti del mondo. E alcuni avvenimenti, come l’esecuzione sulla sedia elettrica dei coniugi Rosenberg, mi hanno commosso profondamente. Il loro secondo figlio Michel era mio coetaneo.
Anche personalità importanti, che passavano in redazione, mi riconoscevano come la figlia di Ulisse.
Tutto questo ha pesato molto nell’impronta culturale ed emotiva, come l’orgoglio di sfilare per mano a mio padre nei cortei operai o stare sul palco durante i comizi alle feste dell’Unità e vedere di quanta popolarità godesse Ulisse tra il popolo comunista.

Mio padre ha fatto molti viaggi, ma certamente quello più straordinario è stato in Cina nel 1956 come membro della delegazione ufficiale del Pci al primo congresso del partito cinese. Durante quel viaggio ha scritto a me e a mia madre lettere quotidiane come un diario su paesi allora sconosciuti.
Per non sentirsi troppo estraneo ha cercato di rintracciare nella Cina contadina qualcosa che gli ricordasse il suo paese, come quando, intervistando  Mao Tse  Tung annota che il capo della rivoluzione cinese portava le calze rosse rivoltate sulle scarpe come suo padre contadino.
Al ritorno ci ha portato un po’ di Cina  nella valigia delle meraviglie piena di regali: i ricami raffinatissimi, i leggerissimi uccellini di piume, le sete antiche, il monile di giada bianca e presentava ciascuno di quegli oggetti con racconti fantastici. In un notes c’erano anche le poesie scritte durante il viaggio.

C’era un legame empatico tra me e mio padre, io vivevo anche le sue tristezze come quando ha dovuto lasciare la direzione dell’Unità. Per un certo periodo ho pensato che l’elezione al Parlamento fosse stata una punizione per lui, ma anche per me, che ne sentivo molto la lontananza. Per non far cadere la sua presenza affettiva mio padre mi scriveva ogni giorno e al venerdì mi raccontava dei suoi incontri romani con uomini politici, registi, artisti, attori.
E ancora poesia: quando ho iniziato il ginnasio mi ha regalato i dischi di liriche lette da Gassman, Foà, Ungaretti per educare la mia sensibilità a cogliere le sottigliezze dell’animo umano.
Lasciando a mia madre i compiti educativi più severi, è stato un padre protettivo, indulgente e tenerissimo, molto diverso dal suo ruolo pubblico. Io coglievo la sua malinconia, gli altri la sua grinta.

Tra noi c’era complicità, ma per me risultava incomprensibile la sua adesione al fascismo. Il mio giudizio lo ha costretto a tentare di spiegarmi con sincerità le motivazioni della sua esperienza giovanile, in modo ben diverso rispetto alle risposte risentite alle accuse, che continuamente riceveva in pubblico anche dall’interno del suo partito.
Credo che l’intenzione di scrivere Il Voltagabbana sia nata da quelle nostre conversazioni. Nell’introduzione scrive che il libro è dedicato ai giovani per spiegare come la sua generazione abbia potuto stare dalla parte sbagliata. Quella sua esperienza contraddittoria ha molto segnato il mio senso morale e, per converso, io non ho mai potuto rinunciare alla coerenza delle scelte, che ha caratterizzato la mia vita.
Credo che mio padre avvertisse una certa soggezione per il mio rigore, come rivela nella poesia scritta nel 1960 per il mio diciottesimo compleanno: “Sotto i tuoi occhi/ di ragazza/ non mi sento più onorevole/ del merlo che canta sul ciliegio / ai margini del bosco / di S. Petronilla”. E nella chiusa esprime la consapevolezza che gli stavo sfuggendo: “Sento i tuoi pensieri/ andare lontano / sei più alta di un anno”.
In quell’anno ho condiviso l’avventura de Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese. Mio padre scriveva solo a mano con la sua grande Montblanc e io ho trascritto a macchina le pagine della biografia, dando anche qualche contributo alla riflessione di scrittura. Per me è stata un’esperienza affascinante.

Mio padre era più attento alla mia formazione culturale che alla mia educazione politica. Aveva chiara l’intenzione di darmi gli strumenti per costruirmi una cultura plurale, rifiutando posizioni dottrinarie dogmatiche. Poi all’Università di Milano ho potuto confrontare la fenomenologia di Enzo Paci,  il razionalismo di Antonio Banfi, su cui ho fatto la tesi di laurea, e il marxismo di Antonio Gramsci. E ho scelto Gramsci come guida metodologica per interpretare la società.
Fino a che ho vissuto a Milano mio padre mi ha tenuta lontano dalla militanza politica, ritenendo che per la mia timidezza e la mia sensibilità sarei rimasta schiacciata dalle diatribe di partito.

Poco più che ventenne ho deciso di seguire il mio compagno in una città di provincia e di lasciare la grande città, di non percorrere una possibile carriera universitaria per andare a insegnare filosofia ai figli dei contadini astigiani e degli immigrati meridionali.
Mio padre non ha ostacolato la mia scelta, ma non l’ha condivisa, preoccupato che l’ambiente ristretto chiudesse i miei orizzonti, e quindi sono diventati più forti i suoi stimoli a continuare a studiare, a scrivere, a compiere esperienze significative.
In realtà la figlia di Ulisse voleva uscire dall’orbita paterna e non sfruttarne il ruolo per costruire la sua vita. Andavo a vivere sulle colline monferrine, a lui così care, e per questo mi ha sentita meno lontana. Nella vecchia casa di Vinchio ci incontravamo ogni domenica e mio padre voleva che gli raccontassi che cosa stavo facendo, soddisfatto delle mie conquiste.
Il regalo più grande che gli ho fatto è stato mia figlia Valentina, la nipote amatissima a cui raccontava le storie partigiane e con cui inventava giochi divertenti. Valentina era il suo futuro, la tenera colomba a cui è dedicato il libro Veder l’erba dalla parte delle radici,

Impulsivo e prorompente, ha condotto molte battaglie politiche e culturali, di cui io, più riflessiva e introversa, soffrivo la violenza polemica. Ho invece condiviso pienamente il suo impegno per coniugare socialismo e democrazia, in particolare quando ha deciso di pubblicare il memoriale di Smrkovsky sul settimanale “Giorni-Vie nuove”, che gli ha creato molti problemi e molte amarezze. Quella battaglia per la libertà e il socialismo dal volto umano ha contraddistinto l’ultimo decennio della sua vita, quando ha voluto liberarsi dall’obbedienza alle direttive del partito e far prevalere la sua coscienza politica personale.

Quando Davide ha capito che il suo fisico stava cedendo ha lasciato un messaggio di eternità a Valentina: “Vedrai che il nonno troverà il modo, e sottolineo troverà il modo, di uscire vivo da questa vita”.
Con me ha avuto un ultimo lungo colloquio. Mi ha espresso le sue preoccupazioni per il partito, impastoiato di burocratismo che stava perdendo il reale legame con la gente. Mi ha esortato a continuare a studiare Gramsci, a impegnarmi, attraverso il dibattito e la ricerca, a liberare la politica dalla corruzione e dalla degenerazione. Non voleva dirmi addio e quindi mi ha parlato anche dei suoi progetti futuri, di un romanzo su Milano che aveva iniziato.
Poi quando il lungo monologo aveva impegnato troppo le sue forze lo ha concluso con una frase in cui ritorna la poesia: “Ricordati Laurana, non è la politica pragmatica che fa la rivoluzione, ma sono la poesia e gli uomini che trasformano il mondo. Non dimenticartelo mai”.
Questa per me è la sintesi della sua storia, della sua visione politica e del suo amore per la vita.

 

* Il testo è stato presentato al convegno dal titolo “davide Lajolo intellettuale e politico”, svoltosi alla Camera dei Deputati organizzato da ADL e dalla Fondazione Gramsci l’11 ottobre.

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