Associazione Davide Lajolo Odv

Saggi

30/09/2024

Davide Lajolo "dalla parte delle radici"

di Laurana Lajolo

La mia gente mi sta dentro come le piante, l’erba verde, le colline, il sole rosso al tramonto. In questafrase si trova il senso della narrazione di Davide Lajolo alla ricerca delle radici sue e dei suoi interlocutori, che erano i contadini protagonisti dei racconti, gli scrittori di cui scriveva la biografia, gli artisti a cui dedicava la presentazione delle loro opere.

Davide Lajolo era impastato della terra della vigna del padre sul bricco di S. Michele, conosceva i sentieri dei boschi e delle valli, i movimenti delle nuvole, parlava con gli alberi e i suoi cani e amava la sua gente, di cui si sentiva parte.

Nelle opere autobiografiche A conquistare la rossa primavera, Il voltagabbana, Veder l’erba dalla parte delle radici, e nei raccontiCome e perché, I mè, Il merlo di campagna il merlo di città Lajolo ha raccontato, accanto alle vicende della sua vita ricca e complessa, le storie del suo paese. Considerava il suo piccolo paese del Monferrato un microcosmo, in cui erano riconoscibili tutti gli eventi simbolici dell’esistenza umana.  Vinchio era il luogo dell’infanzia e della memoria, che veniva trasformato in luogo letterario.

E lo ha descritto così: Vinchio è il mio nido, vi sono nato nella stagione del grano biondo. Quando ritorno qui sono felice e mi libero di tutto. Questa è la mia terra, è come una donna che mi piace tanto, che sento mia e che nessuno può portarmi via.

 

LABORATORIO DI SCRITTURA

Le sue passeggiate nelle vigne e nei boschi erano il suo laboratorio di scrittura. Lajolo attraversava sentimentalmente i posti della sua infanzia, incontrava i contadini, che gli raccontavano storie di persone, di luoghi e di avvenimenti passati, ascoltava i ricordi degli amici e della moglie Rosetta, abile affabulatrice di storie familiari. I racconti prendevano forma inizialmente come articoli sui quotidiani La Gazzetta del popolo, Il Giorno, Il Corriere della sera.

Lajolo non registrava né prendeva appunti, ascoltava incuriosito dalle vicende, poi attraversava quelle memorie con la sua fantasia letteraria, e dava trama e parola a sentimenti ed emozioni, che i suoi protagonisti non avrebbero saputo esprimere. L’autore si riconosceva nel loro modo di stare al mondo e di vivere il proprio destino di vita e di morte, la fatica della terra e la tenue poesia dei fiori e dei profumi

Il paese è stato il fulcro ispiratore della narrativa di Lajolo, che ripercorreva le prime indelebili esperienze di gioco e di vita e quelle esaltanti della guerra partigiana, vissute con il nome di battaglia Ulisse, che hanno rappresentato la sua ri-nascita dopo la giovanile fascinazione fascista.

A VinchioLajolo è rimasto sempre fedele, anche se ha trascorso la sua vita tra Ancona, Torino, Milano e Roma e ha attraversato il mondo dall’Europa alla Cina. Ma non ha mai voluto sottrarsi al richiamo ancestrale del paese per le sue ferie d’agosto. Lui, l’Ulisse partigiano tornava sempre su quelle colline, che erano la sua Itaca.

 

NARRAZIONE ORALE E LETTERATURA

Nei suoi libri Lajolo ha ricostruito le storie di un mondo millenario contadino con tocchi realistici e insieme fantastici e a volte violenti, riproducendo il ritmo dei racconti orali e interpretando la magia poetica della campagna. Come Pavese di Paesi tuoi e La luna e i falò e Fenoglio di La malora e Un giorno di fuoco, Lajolo partiva dalle memorie contadine per fare letteratura con uno stile coinvolgente, a metà tra scrittura e narrazione. La tecnica narrativa era plasmata sulle cadenze della narrazione orale, in cui il narratore e gli ascoltatori vivono in empatia: chi ascolta aggiunge qualcosa al racconto di chi parla, lo trasforma secondo i suoi ricordi e lo rielabora secondo le sue vicende esistenziali.

Molta parte della narrativa del ‘900 è debitrice della memoria orale del mondo contadino. Pavese ha segnato il passaggio dall’oralità popolare alla grande letteratura, anche con una voluta rivisitazione di termini dialettali per mantenere l’efficacia della narrazione diretta.

L’interpretazione della Langa, fatta da Pavese e Fenoglio, è intrisa di mito, di arcano e di eterno, ma Lajolo negli anni Settanta, era ormai consapevole che la civiltà contadina millenaria si stava disintegrando in modo irrevocabile per le conseguenze dell’industrializzazione e i suoi racconti sono scritti quasi come una testimonianza postuma.
 

LAJOLO BIOGRAFO

Lajolo era capace di andare “sotto pelle” dei suoi interlocutori, soprattutto quando ne ricostruiva le biografie, anche perché, raccontando le vite degli altri, si riferiva anche alla sua autobiografia.

Aveva un grandissimo e sincero interesse per le storie degli uomini, per le loro emozioni oltre che per la loro attività creativa. Dopo Il vizio assurdo Storia di Cesare Pavese (1960), si è occupato di Fenoglio, Beppe Fenoglio un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe (1978) e di Di Vittorio, Il volto umano di un rivoluzionario (1979), di poeti e di scrittori che ha incontrato Poesia come pane (1973), Conversazioni in una stanza chiusa con Mario Soldati, Conversazioni in una stanza chiusa Leonardo Scascia, Parole con Piero Chiara (1983), dei suoi amici artisti, Gli uomini dell’arcobaleno, (1984).


DIALOGO CON CESARE PAVESE

Il 10 marzo 1959Davide Lajolo ha annotato nel suo diario: Circa un mese fa ho rilasciato un’intervista alla radio a commento di quella concessa da Pavese nel 1950, parlando della mia amicizia con lui e dei quotidiani incontri serali a “l’Unità” di Torino, durati oltre un anno. Antonicelli ne è rimasto entusiasta e mi ha suggerito di scrivere qualcosa su Pavese. La stessa proposta me l’ha ripetuta Carlo Levi. Ma a decidermi a scrivere la storia di Pavese come biografia umana e culturale è stato Giacomino De Benedetti della casa editrice “Il Saggiatore[1].

Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese, che ha avuto un grande successo di pubblico e molte traduzioni in Europa e negli USA, è pubblicato nel 1960, a dieci anni dal suicidio dello scrittore, ed è stata la prima riflessione, in ordine di tempo, sul destino umano e letterario di Pavese e sul contesto culturale e politico, in cui si era sviluppato il suo ruolo di intellettuale e di organizzatore culturale.

Lajolo ha potuto consultare le carte, che Pavese aveva riordinato, prima di morire, in un baule nell’alloggio di via Lamarmora a Torino. L’emozione del biografo di leggere quei documenti si è unita all’impegno di tenere fede all’ultima raccomandazione dell’amico scrittore, vergata nella stanza dell’Albergo Roma sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò: Non fate troppi pettegolezzi.

Lajolo, infatti, ha utilizzato e interpretato la documentazione e le testimonianze raccolte durante il lavoro preparatorio, ma non ha scritto tutto: alcune cose non le ha rese mai pubbliche, rispettando la volontà dei testimoni, altre le ha taciute per delicatezza nei confronti della famiglia e di qualche amico, altre le ha trattate con particolare pudore, non cercando ad ogni costo lo scandalo o lo scoop.

Ha maneggiato le carte inedite con attenzione affettuosa verso l’amico. Lajolo non è stato spinto dall’intenzione di speculare sugli amori di Pavese o sui suoi tormenti o frugare nei segreti più intimi, ha voluto, piuttosto, comprendere fino in fondo la frase dell’ultima lettera ricevuta dall’amico: “Ora, probabilmente, non scriverò più: con la stessa testardaggine, con la stessa stoica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti- Se vuoi sapere come sono adesso, rileggiti La belva nei Dialoghi con Leucò: come sempre, avevo previsto tutto cinque anni fa[2].

Lajolo ha consultato i testimoni diretti per poter far luce su una personalità riservata, racchiusa dietro il sorriso nostalgico delle apparizioni pubbliche. Lo ha orientato il fitto dialogo intessuto con Pinolo Scaglione, amico fedele a Cesare per tutta la vita, il quale ha condiviso l’interpretazione di Lajolo e si è riconosciuto nel ritratto che è emerso da il vizio assurdo, dove Lajolo ha sottolineato le radici di Pavese nel paese di S. Stefano e, nel contempo, la sua vita a Torino in un dialogo tra città e campagna.

Nel libro Lajolo ha ricordato una conversazione avvenuta nelle vie di Torino, quando l’amico si era confidato con lui di essere una vigna troppo concimata e in cui aveva riconosciuto le affinità tra loro. E ha evocato le conversazioni dei tempi torinesi tra Pavese, silenzioso di fronte al destino di morte, e luideciso a vivere la realtà per cambiarla.

Lajolo non era un critico letterario né un ricercatore accademico, bensì un giornalista con una vena lirica di scrittura e una capacità straordinaria di delineare paesaggi, personaggi, situazioni. Di questo, infatti, si è sostanziato Il vizio assurdo. E nei protagonisti dei romanzi pavesiani Lajolo ha rintracciato parti della personalità dello scrittore. Ha lavorato molto sui libri, li ha interrogati, segnati frasi con la matita rossa e preso appunti a margine.

Le parti più riuscite, come riconobbe il prof.AugustoMonti, sono risultate l’introduzione, l’infanzia e la storia di famiglia, le scorribande sul Po. Il cospicuo numero e la rilevante qualità degli inediti hanno dato un rilievo straordinario di novità al libro.

Gli inediti, quali le lettere agli amici, le poesie liceali, le rubriche di traduzioni, le lettere dal confino, il repertorio fotografico sono diventati, infatti, fonti importanti per studi successivi.

Nelle pagine appassionate come un romanzo dellaStoria di Pavese, Lajolo ha espresso il chiaro intento di contrastare l’autorappresentazione spietata di Pavese nel diario il mestiere di vivere, che affascinava molti lettori, soprattutto giovani. Ha voluto, invece, sottolineare le qualità intellettuali, il rigore stoico delle sue scelte di vita e anche il suo sincero impegno politico dalla parte degli operai, in aperta polemica con gli intellettuali antifascisti torinesi, che avevano rimproverato a Pavese di non aver avuto il coraggio di fare la Resistenza, preferendo rifugiarsi a Crea e frequentare i frati del Santuario.

L’intento è reso esplicito nelle conclusioni del libro: Quello che mi sono soprattutto sforzato di fare è di distogliere i lettori di Pavese dall’errore capitale di giudicare la sua figura esclusivamente da come egli la rappresenta nel Diario. Nel Diario Pavese si muove tra vanità e paura, tra la pietà di se stesso e il tentativo sempre più soffocato di uscire dall’isolamento. Ma il Pavese pubblico non è meno reale del Pavese privato, la sua angosciata ma coraggiosa ricerca per legarsi al mondo degli uomini non è meno importante della sua desolante rinuncia. Mi rimane la coscienza di avere almeno tenuto fede ai suoi insegnamenti per scrivere con sincerità la sua biografia. Ho arato la sua vigna perché sulla terra smossa il ricordo di Cesare Pavese rimanga al di là del fuoco dei falò, al cospetto dell’intramontabile luna.


IL CONFRONTO TRA PAVESE E FENOGLIO

Dopo il successo de Il vizio assurdo Lajolo si è impegnato a valorizzare l’amico nella sua terra: ha chiesto a Ernesto Treccani di realizzare per la Casa del popolo di Canelli le cinque tele ispirate alle opere pavesiane, che ora sono in Fondazione, ha fatto modellare la testa dello scrittore dallo scultore Angelo Ferreri, che ora è nel cortile della casa natale a S. Stefano. Con il sostegno di una casa vinicola di Canelli ha promosso il Premio Cesare Pavese, assegnato a Lorenzo Mondo. E nelle Langhe il regista e poeta Nelo Risi ha girato per la Rai il film La strada più lunga (1975), tratto dal libro autobiografico di Lajolo il voltagabbana (1963).

Lajolo ha scritto i testi per fiction televisiveRai Le Langhe di Cesare Pavese (Ruggerini 1961)e Uomini delle Langhe (Cottafavi 1974), con Diego Fabbri la trasposizione teatrale il vizio assurdo (1974), per i documentari Terra rossa terra nera (Andrea Frezza, 1965), Il confino di Cesare Pavese (Giuseppe Taffarel, 1967).Ha messo a confronto i due scrittori Pavese e Fenoglio, (1970), e in Poesia come pane (1973) sull’interpretazione della Resistenza.

 

DIALOGO CON BEPPE FENOGLIO

Lajolo ha studiato Fenoglio, prima di scriverne la biografia, scrivendo il testo del documentario il barbaro (1965) e dopo l’uscita della biografia ha condotto 30 puntate radiofoniche per la Rai e ha scritto una sceneggiatura per film su Il partigiano Johnny, rimasta inedita.

Anche nella biografia Fenoglio, un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe(1978) Lajolo ha indagato il legame profondo dello scrittore con la sua terra. L’anno precedente aveva pubblicato i suoi racconti di contadini del suo paese ne I Mè e il libro autobiograficoVeder l’erba dalla parte delle radici, Premio Viareggio per la letteratura.

Seguendo il metodo della storia di Pavese, Lajolo ha scritto la prima ricostruzione del profilo della vita e dell’ispirazione letteraria di Fenoglio, ripercorrendo le conversazioni con i familiari e gli amici. Per delineare la fisionomia dello scrittore ha incrociato “vita” e “opere”, essendo convinto che gli scrittori si rivelino nei personaggi dei loro libri. E come nella ricostruzione della storia di Pavese, accanto alle testimonianze inedite, ha fatto una lettura attenta e approfondita delle opere fenogliane.

Ha scritto la biografia di Fenoglio con una prosa spigolosa, viscerale e sanguigna, attraversando i grandi temi della sua narrativa: Alba, la Resistenza e le Langhe aspre, rivissute nel volto magro dello scrittore, ancorato alle radici ancestrali della sua terra. Per Lajolo Alba stava a Fenoglio in un rapporto analogo a quello con la madre, fatto di amore e scatti irrefrenabili, mentre le Langhe erano il padre con la dinastia dei Fenoglio, da cui lo scrittore era orgoglioso di discendere.

Lajolo ha fatto risalire l’originale ricerca linguistica di Beppe Fenoglio alla passione per letteratura anglosassone del periodo elisabettiano alimentata a scuola dalla prof. Marchiaro. Per questo i suoi compagni di Liceo gli avevano dato il soprannome Johnny, che Fenoglio ha reso protagonista della reinvenzione narrativa del vissuto suo e di quello della sua generazione.

Lajolo ha voluto rievocare nel titolo della biografia il guerriero di Cromwell quale modello per la scelta morale di Johnny di combattere i fascisti. In effetti la Resistenza di Johnny-Fenoglio ha assunto la dimensione letteraria di una storia passionale di libertà, influenzata anche dall’insegnamento ricevuto negli anni del liceo dai due professori Pietro Chiodi e Leonardo Cocito, che sono diventati partigiani garibaldini. Fenoglio ha scelto, invece, di combattere nella II Divisione Langhe degli Autonomi, fedeli al giuramento al re e allo Stato monarchico.

Lajolo, il comandante garibaldino “Ulisse” che aveva combattuto la Resistenza sulle colline del Monferrato, ha ricordato nella biografia le perplessità espresse nella recensione su “l’Unità” nel 1952 all’uscita de I ventitre giorni della città di Alba, condivise da molti altri partigiani. In quel tempo di guerra fredda e di contrapposizione ideologica, in cui i partigiani venivano emarginati e anche processati, gli sembrò che Fenoglio non avesse tenuto conto della grande partecipazione popolare alla guerra di liberazione e dei valori per cui si era combattuta la Resistenza.

Dalla lettura de Il partigiano Johnny, pubblicato nel 1968 a cura di Lorenzo Mondo, Lajolo ha ricavato l’apprezzamento delledoti originali della scrittura di Fenoglio nel ritmo del racconto e nell’intima corrispondenza tra parola e contenuto del suo linguaggio, reso “misterioso” dall’utilizzo dell’inglese, che ha fondato il respiro non provinciale alla sua narrazione. 

Lajolo ha notato come Fenoglio, isolato dal mondo letterario, abbia esercitato, con tenacia, la fatica dello scrivere con continue revisioni dei testi e la necessità di scegliere delle parti da pubblicare come romanzi autonomi, stralci che componevano, però, nelle sue intenzioni, come acutamente ha sottolineato Gabriele Pedullà, il suo lungo “romanzo grosso”, che non è riuscito a vedere edito nella sua interezza. 

Lajolo ha, dunque, sottolineato la vocazione di Fenoglio al romanzo epico di antica tradizione, che lo ha sorretto nella volontà di rielaborare fantasiosamentela sua vicenda personale per evitare le insidie della cronaca e del calco naturalistico dei fatti storici. E ha riscontrato nello stile fenogliano teso al tragico, le influenze dei grandi della letteratura europea a cominciare da Shakespeare, Tolstoj e Dostoevskij, che hanno messo allo scoperto l’eterno dramma umano.

Lajolo ha, quindi,  proposto un confronto interessante tra Beppe Fenoglio e Cesare Pavese, includendo anche Guido Gozzano, su cui stava abbozzando un saggio. Ha citato Vittorio Alfieri per l’autobiografismo come scrittura di sé attraverso gli altri in una visione generazionale e corale.

D’altro canto, lo stesso Lajolo ha intitolato il suo diario partigiano Classe 1912 e poi il voltagabbana (1963), per raccontare, attraverso la sua storia, quella della sua generazione passata dal fascismo alla Resistenza.

Rintracciando le radici degli antenati nei racconti di Langa e della saga dei Fenoglio, Lajolo è giunto a considerare La malora (1954) la sua opera più interessante, andando oltre alla preoccupazione espressa da Elio Vittorini nel risvolto di copertina de I ventitré giorni della città di Alba, che aveva definito Beppe Fenoglio scrittore “barbaro” e aveva espresso il timore che il giovane autore rimanesse troppo legato alla cultura della sua terra.

C’è in Fenoglio, ha commentato Lajolo, l’individualismo borghese e insieme l’autosufficiente eroismo e il senso tragico della vita, ma non il naturalismo provinciale.

La Langa per Fenoglio non era l’infanzia come per Pavese, ma tutta la vita, senza bisogno del mito. Il mondo contadino delle Langhe, percorso dalla vena epico-tragica dell’umanità, ha assunto, dunque, un carattere universale.

La biografia si conclude con il rimando all’incubo costante della morte in Beppe come conseguenza inevitabile della guerra civile. In molti episodi i protagonisti, come Milton e Johnny, vengono descritti in fuga, braccati, ma non si capisce se la fuga sia “dalla” morte o “verso” la morte. L’eroe, come in Omero, viene descritto nel momento della morte.

Attraverso le intense testimonianze della moglie, della madre e di alcuni amici, Lajolo ha descritto come Beppe, stroncato dal tumore alla laringe a 41 anni, sia andato dignitosamente incontro alla sua morte, ricordando commosso la testimonianza di Chiodi e dell’ultimo biglietto alla piccola Margherita.

La sintesi non retorica della vita di Fenoglio sta nella dicitura essenziale della lapide: partigiano e scrittore,

 

FILMOGRAFIA SU PAVESE E FENOGLIO

LE LANGHE DI CESARE PAVESE, RAI 1961, regia Pier Paolo Ruggerini.

TERRA ROSSA TERRA NERA Conversazione di L. con l’attrice Laura Giannoli, regia Andrea Frezza, Corona cinematografica, 1965.

IL BARBARO regia Andrea Frezza, Corona cinematografica, 1965.

UOMINI DELLE LANGHE, RAI 1974, Regia Vittorio Cottafavi

IL CONFINO DI CESARE PAVESE, regiaGiuseppe Taffarel, Corona cinematografica, 1967.

La trasmissione radiofonica in 30 puntate per la Rai con le testimonianze raccolte per la biografia dello scrittore albese (1978).

Sceneggiatura per un film Il partigiano Johnny, che non si è realizzato.

 


[1]D. Lajolo, Ventiquattro anni. Storia di un uomo fortunato, Rizzoli, Milano, 1981.la casa editrice “Il Saggiatore” di, Alla fine degli anni cinquanta Alberto Mondadori incarica il critico Giacomo De Benedetti e gli intellettuali più qualificati della cultura milanese di progettare la sua casa editrice di alto profilo nel campo della saggistica, decisamente diversa dall’impostazione commerciale della casa editrice del padre Arnoldo.

 

[2]Vd. Lettere di C. Pavese a Ulisse, Archivio Davie Lajolo.

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