17/11/2025
Il paesaggio armonico - Il paesaggio della vigna
di Laurana Lajolo - Castagnole Lanze, 15/11/2025
Il nostro paesaggio è un patrimonio comune, un prodotto economico e un valore simbolico.
Nel paesaggio collinare la vigna è il luogo mitico, che Cesare Pavese descrive così: “Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori e al di là delle foglie sta il cielo”.
La vigna è stata fatta a mano dai contadini. Il nostro paesaggio è intriso del lavoro di uomini e donne che nel corso di millenni, stagione dopo stagione, hanno costruito con lavoro, fatica e sacrificio quello che oggi è riconosciuto come patrimonio dell’umanità UNESCO.
Per identificare l’ambiente e la natura, i contadini usavano un solo termine: “campagna”, luogo di lavoro e annata del raccolto della piccola proprietà e la famiglia era l’unitàproduttiva
Tutti, dalla più tenera età alla vecchiaia, erano impegnati nei lavori, con mansioni diverse di uomini, donne e bambini. La vigna, al contrario di altri coltivi, ha, infatti, bisogno di cura tutto l’anno e esige il costante intervento umano sulla terra come un patto reciproco di sopravvivenza, interrotto a volte da una calamità atmosferica. Ma già il giorno dopo della grandinata, i contadini tornavano a lavorare per rimarginare le ferite delle viti, dimostrando una grande capacità di adattamento alle trasformazioni del contesto naturale. I cicli naturali e i cicli umani erano in sintonia.
Il susseguirsi delle stagioni richiedeva ai contadini di avere pazienza perché i cicli si compissero con l’aiuto del loro lavoro, quella pazienza che passava da una generazione all’altra, come il legame con la terra e il non rassegnarsi davanti ai disastri atmosferici. Quel senso del tempo, nel sistema ciclico della natura, congiungeva l’esperienza del passato con la previsione del futuro.
Oggi l’agricoltura di precisioneha sostituito l’almanacco delle fasi lunari, ma il termine del passato “campagna” porta con sé un significato che acquista nuova importanza nei necessari processi di resilienza e di transizione ecologica dei nostri tempi, sempre più incombente per i cambiamenti climatici..
Il nostro territorio agricolo ha subito una profonda trasformazione con evidenti ripercussioni economiche e sociali. Lo spopolamento e la perdita di servizi dei piccoli paesi di collina hanno modificato la struttura sociale e antropologica della comunità, che non può essere compensata dal turismo enogastronomico e dalle seconde case di qualche straniero, mentre scompare la trasmissione di memoria tra generazioni e con essa le tracce dell’antica sapienza dell’interdipendenza tra uomo e natura.
L’inverno demografico ha già influito sull’abbandono di terreni prima agricoli, ora diventati boschi o gerbidi, campi per fotovoltaico o sede di impattanti insediamenti produttivi. Molto importante è la mobilitazione in corso della comunità di Castagnole per evitare lo sfregio al paesaggio UNESCO. Faccio gli auguri che la vertenza si concluda come per la Val Sarmassa, riconosciuta Riserva naturale per l’impegno delle comunità di Vinchio, Vaglio Serra e della Cantina sociale che, negli anni Ottanta del secolo scorso, l’hanno protetta da un tentativo di speculazione edilizia e di discarica industriale.
Si dovrebbe piuttosto prevedere l’ampliamento di aree protette per “accudire” il territorio, anziché sfruttarlo e deturparlo.
Le trasformazioni strutturali possono avere ricadute negative anche sullo stesso riconoscimento di patrimonio dell’Umanità UNESCO, che è una leva essenziale per la valorizzazione dei prodotti tipici e per lo sviluppo del turismo sostenibile
Rileggo la motivazione del riconoscimento: “Le colline ben coltivate offrono un panorama in cui sono riconoscibili le antiche divisioni di proprietà con costruzioni che caratterizzano la visuale spaziale: villaggi sulla cima delle colline, castelli, chiese romaniche, cascinali, ciabots, cantine, stabilimenti vinicoli e luoghi di distribuzione commerciale dei vini nei paesi ai margini delle vigne.
Le diverse caratteristiche architettoniche e storiche di elementi legati alla produzione vinicola, che rievocano l’arte più autentica e antica del fare vino, si congiungono armonicamente con le qualità estetiche dei paesaggi, che rappresentano un archetipo delle vigne europee”.
Ci abbiamo messo molti anni per avere nel 2014 il riconoscimento, stiamo attenti a non perderlo nel giro di pochi anni.
Ora che il turismo è un fattore economico concreto anche per l’Astigiano, interessato al nostro paesaggio, occorre che sia salvaguardata l’identità territoriale diversa da altri luoghi a vocazione turistica. Non vanno “copiate” soluzioni da villaggi turistici omologati e omologanti, ma va, invece, caratterizzata l’offerta di un paesaggio fatto di vigne, e quindi produttivo e enogastronomico, di aree protette che offrano esperienze di benessere ai visitatori, di itinerari, di proposte culturali.
E’ positivo l’acquisto di case, essendocene tante vuote nei piccoli centri a prezzi convenienti, bene che siano stranieri ad apprezzare i nostri panorami, ma le amministrazioni devono evitare la cementificazione e favorire piuttosto la riqualificazione degli edifici esistenti, altrimenti si rischia di costellare i punti panoramici di nuove costruzioni in aperta contraddizione con l’enunciato del riconoscimento UNESCO. Sarebbe una visione di corto respiro.
Favoriamo l’incontro tra i turisti e noi nel rispetto del nostro paesaggio, che è bene durevole, non da mercificare, conservando la sua complessità culturale, storica e naturalistica.
Il ciclo della campagna
In che cosa consiste questa complessità colturale e culturale? Coltura e cultura hanno la stessa radice nel latino colere, far crescere.
Nella piccola proprietà le coltivazioni erano funzionali a un’economia di autoconsumo dei prodotti, dall’uva al grano, dal mais alla legna da ardere, dagli alberi da frutto agli ortaggi e all’allevamento di polli e conigli con il bue e la mucca nella stalla e il letame era il concime naturale delle vigne.
I lavori ciclici scandivano il tempo degli avvenimenti delle famiglie e della comunità.Il calendario delle feste era condizionato dai tempi di lavoro. I matrimoni si celebravano durante l’inverno, quando la campagna riposava sotto la neve, le feste patronali erano fissate in piena estate, prima della vendemmia. Le date religiose, feste dell’intera comunità, erano occasioni di incontri parentali.
Narrazione contadina e saper fare
Le narrazioni contadine si fondevano con le stagioni in un unico paesaggio umano e naturale, secondo una tradizione orale, che risale alle epoche arcaiche delle leggende degli eroi e degli dei.
Rappresentavano uno scambio collettivo: qualcuno raccontava e altri ascoltavano e intervenivano nel racconto con integrazioni e altre storie. Quindi la memoria entrava nella biografia di tutti e veniva trasmessa da una generazione all’altra. Quando una voce spariva ne subentrava un’altra per continuare la narrazione corale, che conformava il tessuto identitario del paese.
La memoria della famiglia si incarnava nelle generazioni attraverso i nomi degli avi ai discendenti: il nome del nonno non si spegneva con la sua morte perché veniva portato dal nipote e continuava a contrassegnare la famiglia di appartenenza. Era una memoria orale, ma anche materiale, di ruoli parentali, di oggetti della casa e del lavoro. Le case contadine erano spoglie di arredi, ma dense di memorie conservate.
I contadini, per molti secoli analfabeti, hanno insegnato ai loro figli a coltivare la terra con i gesti del lavoro, le date dei lavori stagionali segnate sull’almanacco, con i precetti morali e i proverbi che indicavano comportamenti degli umani e della natura. Così trasmettevano insieme il saper fare e la memoria, costruendo via via anche nuove tradizioni. Il loro sapere era saggezza di operare e giudicare. Oggi è venuta a mancare la narrazione di memorie e tradizioni, mettendo in crisi il senso della comunità.
La lingua della narrazione era il dialetto con particolarità linguistiche e accenti che si differenziavano anche tra paesi limitrofi e che individuavano l’appartenenza identitaria dei paesani. Il dialetto aveva espressioni molto efficaci, che facevano riferimento alla concretezza di vita e di lavoro, ma non avevano quelli descrittivi dei sentimenti. La massima effusione dialettale riguardava il “voler bene”, non l’amore, mentre “maleur” definiva dolore e malattia.
E la tradizione orale dei contadini di Langhe e Monferrato ha dato origine alla letteratura della seconda metà del ‘900. Cesare Pavese ha reso mitico il paesaggio, Beppe Fenoglio ha interpretato l’arcaica Madre Langa, Davide Lajolo ha scritto le storie della sua gente e della sua campagna, con Revelli contadini e contadine diventano protagonisti delle loro storie, quando il loro mondo stava cambiando in modo irreversibile a causa dell’industrializzazione e dell’urbanesimo, un processo ormai evidente nel corso degli anni Settanta. Gli scrittori si sono assunti, dunque, la responsabilità di mantenere traccia della società contadina millenaria nelle pagine scritte.
Le donne anello forte
Le donne contadine, cardine della famiglia patriarcale, si raccontano per la prima volta nel libro di Nuto Revelli L’anello forte (Einaudi, 1985), che è una raccolta partecipata di testimonianze di tre generazioni, storie di vita, di lavoro, di sofferenze e di forza.
Dopo aver raccolto le testimonianze dei contadini ne Il mondo dei vinti (Einaudi, 1977), Revelli si rende conto che nella cucina, in cui aveva ascoltato le parole degli uomini, le donne erano una presenza silenziosa, ma determinante nella famiglia. Una frase di un contadino de Il mondo dei vinti diventa la guida per intendere le testimonianze femminili: “La donna nella famiglia non figurava, ma contava”. Da qui viene il titolo L’anello forte.
Nella famiglia contadina tradizionale le donne amministravano la vita e la morte. Gestivano l’incontro tra il terreno e l’eterno, tra vita reale e fede.
Le donne erano parte della natura con la luna, che regolava i cicli mestruali e i parti, e la conoscenza delle erbe medicamentose. E gestivano la morte, così frequente, per parto, degli infanti, per malattie senza cura e in guerra. Le donne assistevano i moribondi, vestivano i defunti e accompagnavano con le lacrime i feretri.
Le donne erano le depositarie dell’affettività dei matrimoni combinati e dei figli. La famiglia esisteva intorno a loro.Quando rimanevano vedove diventavano matriarche e facevano fronte al raccolto, al futuro dei figli e alla continuità della tradizione familiare. I vedovi, invece, si risposavano in fretta (il proverbio dice che il dolore del vedovo è come quando si batte il gomito, un dolore forte che passa presto), perché senza una moglie non potevano gestire la loro famiglia.
Le donne accettavano i sacrifici del lavoro e della cura familiare come condizione esistenziale determinata e determinante. Oltre ai lavori domestici, all’allevamento di piccoli animali, erano loro a fare i lavori più delicati nella vigna con mani esperte come la cimatura delle viti (schersulé). La loro qualità era il “saper fare”: dalla cucina alla mungitura, dal cucito al lavoro in campagna. Organizzavano l’economia domestica di sussistenza, barattando al mercato i bachi da seta e le produzioni dell’orto per acquistare i beni necessari alla famiglia.
Soltanto nel 1975 l’approvazione della legge sul diritto di famiglia modifica i rapporti all’interno della famiglia, riconoscendo l’apporto economico della moglie alla proprietà del marito, ma già a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso sono le donne a decidere il cambiamento dei rapporti familiari e sociali. Conl’industrializzazione e il richiamo del modello di vita della città, molte ragazze non hanno più voluto sposare un contadino. Volevano uscire dalla famiglia patriarcale e dalla sottomissione alla suocera, formare una propria famiglia, vivere in una casa con le comodità moderne e far studiare i figli, soprattutto le figlie, perché facessero una vita migliore della loro. Nel 1962 la continuazione degli studi è favorita dalla legge di prosecuzione dell’obbligo scolastico fino ai 14 anni.
In quegli anni i contadini vanno a cercare moglie nel Sud più povero e le ragazze meridionali hanno portano nuova energia. Come registra Nuto Revelli nelle testimonianze de L’anello forte, quelle giovani donne si sono adattate in un ambiente non conosciuto, hanno portato rispetto ai vecchi, imparato il dialetto. hanno lavorato molto e, col tempo, hanno assunto le redini della famiglia, diventando le protagoniste di un cambiamento epocale.
Oggi le lavoratrici in campagna sono imprenditrici agricole e turistiche e le loro figlie raggiungono la laurea e professioni qualificate. La rivoluzione soggettiva e generazionale è andata a compimento.
La resilienza delle donne contadine è un bell’esempio di vita per tutte le donne. Ce la possiamo fare.
(Premio “Terre, lavoro e paesaggio” dell’Istituto italiano per la salvaguardia del paesaggio culturale vitivinicolo” a Laurana Lajolo Castagnole Lanze, 15.11.2025)