Associazione Davide Lajolo Odv

Saggi

18/02/2011

“Dalla stanza aperta della storia: il dialogo a distanza tra Davide Lajolo e Leonardo Sciascia”

Introduzione di Fabio Pierangeli a Conversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia di Davide Lajolo - riedizione edilet 2009

“Dalla stanza aperta della storia: il dialogo a distanza tra Davide Lajolo e Leonardo Sciascia”

Pubblichiamo  brani dell’introduzione del prof. Fabio Pierangeli, docente di Letteratura del viaggio e Letteratura italiana all’Università Roma Tor Vergata, alla riedizione del libro di Davide Lajolo “Conversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia”, uscita nella sua prima edizione nel 1981 (Sperling e Kupfer). Il dialogo tra i due scrittori percorre i temi più caldi della società italiana, come il rapimento Moro, e fa memoria dell’amicizia con gli esponenti più importanti della cultura del ‘900, tra cui Pirandello, Vittorini, Pasolini, Calvino, tanto per citarne qualcuno. Un quadro vivo e palpitante di riflessioni sincere e provocatorie di due intellettuali molto diversi tra loro eppure impegnati nella difesa della coscienza come bussola per le scelte esistenziali, culturali e politiche.
 

Introduzione di Fabio Pierangeli
“Dalla stanza aperta della storia: il dialogo a distanza tra Davide Lajolo e Leonardo Sciascia”

1978: rapimento e esecuzione di Moro, 1982, agguato e uccisione del generale Dalla Chiesa. Anni cruciali della storia italiana, sul cui sfondo tragico si situa, nel 1981, la Conversazione in una stanza chiusa, ovvero la lunga intervista-colloquio di Davide Lajolo con Leonardo Sciascia, edita da Sperling & Kupfer. L’impegno politico, umano, sociale dei due scrittori, solidali su un fondale di valori comuni, vi trova una espressione autentica, insieme alla diversità di carattere e di comunicazione, del tutto evidente nell’incalzare a volte dilagante delle domande e l’asciuttezza composta, sofferta, delle risposte, in linea con la ricerca stilistica della narrativa dei due dialoganti: scopertamente autobiografica quella di Lajolo, man mano più filtrata, con l’eccezione di quel libro atipico quanto unico e straordinario capolavoro che è L’affaire Moro del 1978, quella di Sciascia, con risposte probabilmente a “tavolino”, alcune delle quali riprese da altre interviste, in particolare quella alla Padovani, La Sicilia come metafora, Mondadori, 1979.

Differenze, mi è caro immaginare e rendere presente nella memoria “iconografica” del tempo, anche nel fisico, nella voce, negli occhi, specchio, disegno, apertura, finestra del cuore.  Resta l’impressione, confermata anche dai colloqui con la Laurana Lajolo, di un incontro necessario di due personaggi di spicco che, pur uniti su certe questioni, agivano in modo del tutto diverso, provenienti da culture differenti. Pur avendo a disposizione filmati e fotografie numerose, preferisco “guardarli” con le parole, immaginandoli in una stanza chiusa, probabilmente di Roma, al centro delle estremità delle loro terre tanto amate.

(…)

Fin dalle prime battute del dialogo risulta chiaro il ruolo della coscienza in questa desertificazione progressivamente notata nella storia italiana del dopoguerra, violenta culturalmente e umanamente anche per l’effetto di annullamento dell’individualità del pensare critico. Sia pur in modo differente, i due scrittori e pensatori rappresentano la migliore tradizione della “terra” italiana, da Nord e da Sud, prima della scomparsa delle lucciole:

Lajolo Ecco che qui tu sei non più un provocatore disperato o disperante ma un pensatore lungimirante e stimolante che ritiene possibile essere l’uno e l’altro, rivoluzionario e conservatore, e se questa volontà e questa chiarezza d’intenti fossero anche negli altri, nelle masse, hai speranza e certezza assieme che si potrebbe partire dal meglio ancora esistente per arrivare a un meglio più avanzato e non allo sfacelo e allo sgomento. E’ così? Concordi con il fatto che il primo partito nostro (di noi due) è la coscienza?
Sciascia Sì, la coscienza: come primo e, in definitiva, unico partito. Ma una coscienza, direi, fortemente improntata al diritto. Tanto per fare un esempio: io sento la Costituzione della Repubblica Italiana come un’oggettivazione della mia coscienza, come la carta che la mia coscienza non può né travalicare né tradire, e tanto meno possono travalicarla e tradirla le mie azioni. Poiché intorno è tutto un travalicarla e un tradirla, la mia coscienza si ritrae sempre più, si fa sempre più solitaria. Ma forse non riesco a esprimere bene questo stato d’animo e cioè di coscienza.
L. Puoi spiegare esattamente il significato di “conservatore per essere rivoluzionario”?
S. Il reazionario vuol conservare il peggio. Il conservatore il meglio. E’ soltanto conservando il meglio del passato che si può guardare al futuro e andare avanti. Moravia, parlando di Dostoievskij, dice che la differenza tra il rivoluzionario e il terrorista sta nella priorità che il rivoluzionario dà alla coscienza rispetto all’azione; mentre nel terrorista è il contrario. Ecco, io darei al termine coscienza anche il valore del meglio del passato, del meglio che si vuol conservare. La coscienza, in effetti, non è che il meglio del passato.
L. Tu sei provocatore o pensatore stimolante?
S. Non provocatore per vocazione: non nascondo quello che penso. Semplicemente. Posso anche aggiungere: candidamente.

(…)

1981, Pasolini è morto da sei anni. Un altro dei massimi studiosi di Sciascia, Massimo Onofri[i],  indica in Calvino, Pasolini e Sciascia le tre coscienze letterarie dell’epoca, con i loro diversissimi modi di intervento sulla società, più lento e riflesso a partire dagli fine degli anni Sessanta quello di Calvino, ininterrotto e votato consapevolmente al martirio quello di Pasolini. Ricordata meno, a torto, in questi decenni cruciali nella stanza aperta e ferita della letteratura verso la storia, spetta un posto di rilievo alla figura e all’opera di Davide Lajolo, nella ricerca del dialogo costruttivo con gli intellettuali verso una adeguata coscienza e identità nazionale, in particolare nel momento tragico di cui si è detto.

Entrambi gli scrittori si pongono su strade alternative rispetto agli opposti rappresentati da Pasolini e Calvino.

Al potere, diversamente dalla tentazione alla morte di Pasolini, Sciascia oppone sempre le ragioni della vita[ii]:

Ecco se Pasolini fu un corsaro, ma un corsaro che cercò il patibolo come suprema dimostrazione delle proprie ragioni, Sciascia è stato più ostinato defensor fidei, di una fede, certo, che coincideva con l’eresia, per ritrovarsi nelle spoglie  di un ipotetico contro inquisitore, dei più inflessibili, dei più implacabili, a dar voce, fino all’ultimo, chi della voce era stato violentemente privato, da Diego La Matina ad Aldo Moro.

(…)

La coscienza si realizza concretamente nella società contemporanea nello struggimento verso la giustizia, avvertito da Sciascia sin da ragazzo, in episodi del 1946, ritenuti fondamentali, in cui si trova ad assistere a due processi, ad un contadino e ad un arciprete. Da diverse esperienze, affondate nelle radici dell’opposizione al fascismo (di cui Lajolo, è noto aveva abbracciato le istanze fino ad una netta conversione che lo porta a capo di organizzazioni partigiane, il tutto descritto nel Voltagabbana) e del delicato dopoguerra, i due scrittori hanno in comune questo vivissimo sentimento di avversione verso l’ingiustizia, di commozione e ribellione di fronte anche al più piccolo dei soprusi. Lajolo lo affina e lo avverte nelle radici contadine, accanto a quel mondo nella società che si evolve, per migliorarne le condizione senza cancellarne le identità peculiari, Sciascia attraverso il faticoso superamento dello stagno del pirandellismo, come ha ben delineato Pietro Milone in un libro importante: L’Udienza [iii]. Tematiche non estranee a quella esperienza di accostamento e spesso confusione tra teatro e vita, ancora così manifesta in Sciascia da essere occasione continua di riflessione in ambito saggistico e di prassi narrativa. Del resto, entrambi sperimentavano come i mezzi stessi del teatro siano il correlativo oggettivo perfetto di talune riflessioni (si veda l’accenno in questa conversazione ai testi teatrali di Sciascia, L’onorevole, I mafiosi, la Recitazione della controversia liparitana e l’accenno al problema della traduzione-tradimento di un testo teatrale a proposito della messa in scena del Vizio assurdo di Lajolo-Fabbri[iv]).

 


[i] Si veda, almeno, Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Bari-Roma, Laterza,2004.  Ma in questo contesto mi riferisco in particolare al saggio Massimo Onofri,Il ritorno delle lucciole. Sciascia oltre Calvino e Pasolini, in Sylva. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di Giorgio Patrizi, Roma, Bulzoni, 2002.

[ii] Ibidem, pag.,

[iii] Pietro Milone, L’udienza. Sciascia scrittore e critico pirandelliano, Manziana-Roma, Vecchiarelli, 2002.

[iv] Rimando a Fabio Pierangeli, Pavese a teatro, Roma, Nuova Cultura, 2008, con la riproduzione del testo teatrale di Fabbri e Lajolo, Il vizio assurdo, ispirato alla celebre biografia di Pavese di Davide Lajolo del 1960. Come si ricorderà, un’altra fetta importante del Lajolo saggista è dedicata all’altro scrittore langarolo. Beppe Fenoglio.

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