01/06/2004
I filari del mondo. La vicenda di Davide Lajolo nel suo (e nostro) tempo
Giuliana Bertacchi, convegno "I filari del Mondo" Vinchio giugno 2004
Il convegno dedicato a Davide Lajolo, che si è svolto a Vinchio -il suo paese natale sulle colline del Monferrato- l’11 e il 12 giugno 2004 per iniziativa dell’Associazione a lui intitolata, non ha solo consentito di esplorare criticamente la figura e l’opera dell’uomo politico e scrittore artigiano, ha anche proposto una ricca serie di riflessioni e di spunti per ripensare ad alcuni dei nodi cruciali della storia italiana del Novecento. La ricorrenza del ventesimo anniversario della morte non si è dunque esaurita nella rievocazione e nell’indagine della complessa esperienza di Lajolo; è diventata piuttosto un’occasione di ripensamento e di dibattito, al di là dell’attenta considerazione critica che i relatori hanno dedicato alla sua vasta e multiforme attività. Lo ha colto con chiarezza Nicola Tranfaglia nell’Introduzione al volume degli Atti -curato da Laurana Lajolo, a cui si devono il progetto e la realizzazione del convegno- I filari del mondo. Davide Lajolo: politica, giornalismo, letteratura (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pp.XVI – 253). Riflettere sul percorso umano e politico di Davide Lajolo – scrive infatti Tranfaglia- è un’occasione importante per chi studia la storia dell’Italia del Novecento, e –mi permetto di aggiungere- per chi vuole capire più a fondo, al di là dei dibattiti per lo più artificiosi, che mezzi di comunicazione di massa e “storici della gente” si incaricano di sollevare per ragioni che poco o nulla hanno a che vedere con esigenze di studio e di approfondimento.
Luce nuova sulla “fascinazione” che il fascismo esercitò sui giovani, per i quali ha potuto costituire una sorta di “religione politica”, proviene dal saggio di Dianella Gagliani, che, analizzando con grande e appassionato rigore (non è una contraddizione; rigore e passione possono coesistere e dare frutti preziosi) gli scritti di Davide Lajolo -in primo luogo Il voltagabbana, pubblicato nel 1963 e recentemente ristampato, ma anche gli articoli, i romanzi e le poesie giovanili - e le corrispondenze con Fidia Gambetti e molti altri, delinea le caratteristiche della sua convinta adesione al fascismo. Non si è trattato di un’infatuazione giovanile o di un incidente di percorso: il futuro comandante partigiano e esponente comunista aderì entusiasticamente al fascismo, secondo una visione personale, ma condivisa da molti giovani, che credettero di trovare sbocco alle loro aspirazioni nei miti che essi stessi contribuirono a creare. Su questa base, la studiosa delinea gli “ingredienti” del fascismo di Davide Lajolo (il mito di Mussolini, l’iperpatriottismo e il mito dell’Italia grande, il mito dell’esperienza di guerra e quello del legionario, in conflitto generazionale con i “vecchi” squadristi), mettendo in rilievo le esigenze profonde – la polemica antiborghese, il desiderio di pulizia morale, la ricerca della relazione tra cultura e politica, la pietas umana – che lo porteranno a imboccare “l’intricato percorso” dell’uscita dal fascismo e a maturare, dolorosamente, la scelta partigiana e l’adesione al partito comunista.
Davide Lajolo diventa, non senza contrasti e diffidenze iniziali, il comandante partigiano “Ulisse”, che si conquista sul campo quel prestigio che lo rese popolare negli ambienti della Resistenza, non solo piemontese. Appunto a L’Ulisse nella guerra partigiana è dedicato l’intervento di Mario Renosio, con qualche puntualizzazione che scaturisce dal confronto tra gli scritti di Lajolo (Il voltagabbana; Classe 1912, poi ristampato nel 1975 con il titolo A conquistare la rossa primavera) e i documenti coevi agli eventi o successivi alla Liberazione, ma – come è noto- alla memoria autobiografica, anche se “ a caldo”, a ridosso degli eventi, non si può mai chiedere l’informazione fattuale, bensì l’elaborazione soggettiva di quanto quegli eventi hanno significato nel tessuto esistenziale. I romanzi autobiografici di Lajolo – osserva infatti Renosio- danno indicazioni sui percorsi di “uscita dal fascismo” di una generazione di giovani che maturarono la scelta della Resistenza.
Dopo l’esperienza partigiana l’impegno politico di Lajolo si dispiega nel Partito comunista, a livelli dirigenti, presso la redazione dell’edizione torinese de “L’Unità” e in seguito con la direzione del quotidiano a Milano, tra il 1948 e il 1958. Eletto deputato al Parlamento dal 1958 al 1972, ricoprì la carica di vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai – Tv, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, quando il controllo governativo si esercitava con pesante e spesso ottusa intransigenza. Il saggio di Guido Crainz prende spunto da questo non secondario aspetto dell’attività politica di Lajolo per ricostruire il clima in cui essa si colloca e le vicende attraverso le quali si ottiene (Lajolo si impegna in prima persona in questa battaglia) la partecipazione dei partiti di opposizione alle Tribune politiche. Il quadro della censura e della chiusura imposte dai governi a radio e televisione, ed esteso alle opere teatrali e cinematografiche, unitamente al rigido controllo degli organi di stampa, è impressionante: “vicende che sembrano lontane secoli, non decenni”, commenta Crainz, citando i casi più clamorosi, i divieti e le decine di tagli che “hanno talora del surreale”, e che si accompagnano all’allontanamento di giornalisti prestigiosi, ma non disposti a conformarsi alle direttive del potere politico, da Enzo Forcella a Gaetano Baldacci, a Enzo Biagi. Vicende dunque che sembrano lontane secoli, ma che al lettore suggeriscono sconfortanti analogie con l’oggi, pur con tutte le ovvie diversità e distinzioni che è necessario considerare in presenza di situazioni sociali, culturali e strutturali profondamente trasformate nel tempo.
Entra nel vivo dei rapporti tra Davide Lajolo e il “suo” partito, Aldo Agosti che, analizzando l’atteggiamento di Lajolo – allora direttore di “Vie Nuove”- nei confronti della primavera di Praga, rintracciandone precedenti e sviluppi, propone un “quadro parzialmente inedito di una fase cruciale della storia del Pci”, di cui Agosti è profondo conoscitore. Il profondo disagio e i “turbamenti” già manifestati da Lajolo nel 1952 (processo Slansky) e nel 1956 (rapporto Chruscev al XX Congresso; tragedia dell’Ungheria), diventano amarezza e disillusione con la “normalizzazione” seguita alla “primavera di Praga”. Dalle colonne del settimanale che dirige, non più espressione ufficiale del partito, Lajolo porta avanti una strenua battaglia per “restituire l’onore politico” ai compagni cecoslovacchi, con la pubblicazione dell’intervista a Smrkovsky e della lettera di Dubcek alla vedova del dirigente scomparso, con numerosi, decisi interventi in favore dei giornalisti arrestati e espulsi dalle autorità di Praga. Lajolo è duramente attaccato dalla stampa sovietica, ma è difeso dal Pci, attraverso le colonne de “L’Unità”. Nel febbraio del 1975 la pubblicazione, sempre su “Giorni-Vie nuove”, del drammatico Memoriale di Smrkovsky, che suscita vasta eco anche nella stampa internazionale, e soprattutto i ricordi e le riflessioni su vicende del Pci, in particolare su Togliatti, che Lajolo pubblica su un periodico in partibus infidelium, “Il Mondo”, settimanale de “Il Corriere della sera”, suscitano risentimenti in molti esponenti del Pci, e provocano – con molta probabilità- la sua esclusione dal Comitato centrale eletto dal XIV Congresso del partito. La tesi ufficiale è quella del “normale avvicendamento” dei quadri dirigenti, e la accredita lo stesso Lajolo, a prova della sua sofferta capacità di anteporre il superiore interesse del partito alla sua persona, pur vivendo l’esclusione con profonda amarezza. Questo tuttavia non comporta la rinuncia – osserva Agosti - a salvaguardare “la memoria della battaglia combattuta per un ‘socialismo dal volto umano’”, che “resta un capitolo importante della storia del comunismo italiano”.
La difesa del “socialismo dal volto umano”, l’appassionato sostegno alla possibilità di costruire un progetto di giustizia sociale, non appartennero dunque soltanto all’ “eresia” de “Il manifesto”, ma anche a chi, rimasto fedele al partito come Davide Lajolo, ingaggiò durissime polemiche con il gruppo di Rossanda, Pintor e Parlato. E questo riguarda, se vogliamo, ancora la storia del Pci. In apertura del suo saggio, come si ricorderà, Aldo Agosti, invita a leggere questo aspetto della vicenda di Lajolo come occasione per far luce su una fase cruciale della storia del partito, e aggiunge “ma non solo”. Vale la pena di provare a svolgere questo inciso, almeno cercando di capire perché questo capitolo importante rimane negletto. A me pare di scorgervi i segni di una rimozione: da troppe parti si è portati a oscurare quanto contraddice la comoda equazione comunismo uguale stalinismo, per annegare tutto e tutti in una inappellabile condanna. In questo modo si stravolge il senso della nostra vicenda nazionale, si finisce per amputare una parte essenziale della storia dell’Italia contemporanea, in cui il partito e l’area comunista, le personalità e le correnti, i movimenti sociali e culturali, ortodossi ed eterodossi, che ad essi si ispirarono, hanno parte grande e profonda.
Il giornalismo rimane il campo principale in cui si esplica l’attività politica di Davide Lajolo. A questo aspetto è dedicata la seconda parte del convegno, che alterna contributi di testimonianza a studi specifici. Ai primi appartengono gli interventi di Paolo Murialdi, che ricorda, tra l’altro, gli efficaci corsivi di “Ulisse”, che interpretavano e difendevano la posizione del Pci sui grandi eventi mondiali degli anni Cinquanta, e di Marcello Venturi, appassionata rievocazione di una amicizia, nata nella redazione milanese de “L’Unità” e destinata a proseguire negli anni. Ne scaturisce un vivace ritratto di “Ulisse”, direttore di giornale politico e scrittore con la passione del raccontare, capace di coniugare l’apertura culturale e il rispetto per la libertà di espressione (“autori anche lontani dalla nostra ideologia- scrive Venturi- ebbero ampia ospitalità sulle colonne della terza pagina milanese, liberi di scrivere ciò che volevano”, quella terza pagina che “provocò aspre critiche da parte della Commissione Cultura di Botteghe Oscure”) con l’impegno politico strenuo e equilibrato.
Bruno Pischedda esamina un filone particolare del giornale comunista negli anni tra il 1945 e il 1956 in cui Davide Lajolo vi ebbe responsabilità di redazione e direzione, rintracciando le “avvisaglie di una cultura di massa” dalla cronaca nera ai “delitti in terza pagina”, vale a dire al genere noir e al giallo, Non è un passaggio facile e automatico, per gli ostacoli di natura ideologica che vedono nella diffusione dei gialli americani di maggior successo il pericolo di un’apologia delittuosa, che può diffonde nei lettori i nefasti principi della “legge del più forte e del più spietato” su cui si regge la “malsana società americana” (sono citazioni da un articolo di Stefano Canzio). A partire dal gennaio 1952, tuttavia, Davide Lajolo propone nella terza pagina racconti gialli di “materia statunitense”, a riprova sia del pragmatismo del direttore, che vuole allargare la diffusione e l’influenza del suo giornale, sia del mutamento del clima culturale del paese, in armonia con i processi di trasformazione della società del dopoguerra.
Un’attenta analisi della vicenda del settimanale “Vie Nuove”, poi “Giorni-Vie Nuove” e della direzione di Lajolo, che vi è a capo dal 1969 al 1978, è condotta da Manuela Lanari. Senza trascurare gli aspetti finanziari e il dibattito interno al Pci, da cui la testata diventa formalmente autonoma dal 1971 con il passaggio di proprietà a una società in cui entra la Lega delle cooperative, la studiosa dedica spazio alla ricostruzione della coraggiosa operazione editoriale del direttore: il suo progetto, volto a coniugare la tradizione culturale comunista con le esigenze della comunicazione di massa, con la tendenza al dialogo multigenerazionale e al rapporto diretto con i lettori, incontra molti ostacoli, comprese le resistenze e le critiche da parte dei lettori, sconcertarti dalle aperture attraverso cui Lajolo cerca di rispondere alle profonde trasformazioni in atto. Ma la maggiore difficoltà viene dall’interno, non solo dalla direzione del giornale, ma dalla stessa storia del Pci; persino il direttore fatica a seguire gli sviluppi dei movimenti delle donne e dei giovani, assumendo nei loro confronti atteggiamenti altalenanti tra il dialogo e la chiusura. “Il rotocalco di tutti, soprattutto dei giovani e delle donne– conclude Manuela Lanari- finì così con lo schernire coloro che continuavano a lottare senza combattere, per citare un’espressione più volte usata da Ulisse”.
Due giornalisti in servizio attivo intervengono sul giornalista Lajolo, Alberto Sinigaglia de “La Stampa” e Furio Colombo, direttore de “L’Unità”. L’intervento di Sinigaglia si occupa della posizione di Ulisse sul terrorismo degli anni Settanta, sviluppando un parallelo tra questi e Indro Montanelli, che accomuna per il “ senso civico e del bene pubblico da rispettare e da difendere”.
L’appassionato intervento di Furio Colombo si incentra sul tema dell’impegno politico e della libera informazione, un binomio inscindibile ma assai difficile da attuare, ieri e oggi. Non facile per Davide Lajolo alla direzione dell’organo del Pci e altrettanto difficile per lo stesso Colombo, che rintraccia un filo ideale che lo collega a Ulisse nel “tormento dei rapporti tra il direttore di un giornale politico e la parte politica che rappresenta” (l’analogia appare oggi ancora più stretta, dal momento che Furio Colombo è stato sostituito alla direzione del quotidiano, pur continuando la sua collaborazione). Ma altri fili raccordano la sua esperienza alla testa de “L’Unità” a quella di Lajolo: il diritto alla libertà, la necessità di esporsi ai rischi e alle avventure giornalistiche, connesse alla capacità di trovare le notizie e di comunicarle, la tensione tra il fare giornalismo politico e il potere, “che è tanto più grande, quanto il potere è capace di minacciare i limiti estremi della libertà”. Se l’Italia ai tempi di Lajolo era un’Italia drammatica e drammatici gli anni della guerra fredda, della tragedia dell’Ungheria, della Primavera di Praga, la situazione attuale non lo è meno, dal momento che sono in pericolo le stesse libertà costituzionali. L’Italia di oggi – continua Furio Colombo – non vive una situazione “normale”; è illusorio e pericoloso pensarlo, soprattutto da parte della sinistra: siamo in una “esperienza di emergenza” per la democrazia, perché l’attuale maggioranza di governo non dialoga con l’opposizione, la delegittima. Ricordare degnamente Davide Lajolo significa soprattutto impegnarsi oggi nella battaglia politica per la democrazia.
La terza parte del convegno ha esplorato gli aspetti letterari dell’opera di Lajolo. Alla rassegna di Delmo Maestri sui “classici” delle letteratura resistenziale, segue il contributo di Sergio Pautasso incentrato sui percorso di Davide Lajolo da Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese, pubblicato nel 1960, al volume Pavese, edito nel 1984. Pautasso fornisce al lettore un’interpretazione acuta e approfondita di questo itinerario, che ha la sua origine nell’amicizia e nel profondo rapporto umano che si stabilisce tra i due scrittori sin dal 1945, rapporto fondato sulle “comuni radici terragne” tra Langhe e Monferrato. L’amicizia rimane elemento insopprimibile de Il vizio assurdo, con cui Lajolo apre la strada a una diversa e non banale interpretazione del “problema Pavese”, anche grazie al suo “innegabile fiuto” per la ricerca, che gli fa scovare interessanti documentazioni e informazioni. Tra i meriti del libro di Lajolo vi è quello di ridimensionare drasticamente il mito decadente del suicida per amore, mentre un altro mito, quello dell’intellettuale di sinistra, non sufficientemente avvertito come tale, impedisce all’autore di scavare a fondo sull’argomento. Tuttavia l’indagine di Lajolo, affrontando il terreno tra privato e culturale del mondo interiore pavesiano, non mancò di creare imbarazzo alla casa editrice Einaudi (infatti Il vizio assurdo esce presso Rizzoli), per la quale “Pavese era una specie di icona”, come lo era per la “cultura dell’allora Pci e dintorni”.
Il successivo Pavese, uscito postumo, non è una semplice ristampa, ma tiene conto degli elementi emersi dal successivo dibattito critico attorno allo scrittore. Lajolo “non aveva cambiato idea attorno al suo grande amico, ma aveva capito che il tempo della letteratura nutre una memoria storica e critica con cui era doveroso misurarsi”.
L’impegno interpretativo che Davide Lajolo dedica a Cesare Pavese non si esaurisce nella produzione presa in esame da Sergio Pautasso: si esplica in modo significativo in altri campi, il teatro, il cinema, la televisione, che Fabio Pierangeli esplora attentamente. Per Davide Lajolo, Pavese è “l’uomo che cammina da solo”, ma che vuole sapere chi c’è attorno a lui, nel paese e nel mondo. Nel testo del documentario costruito in forma di dialogo Terra rossa, terra nera – sostiene Pierangeli – Lajolo evidenzia appunto “il dilatarsi della sensazione di solitudine dal singolo al paesaggio umano, al paesaggio vero e proprio”, le colline delle Langhe. Proprio Le Langhe di Pavese, è il titolo, tutt’altro che semplicemente referenziale e descrittivo, di un altro documentario, andato in onda nel 1961, “vera e propria riscrittura sceneggiata non solo della biografia, ma dell’opera di Pavese”. Per Lajolo raccontare Pavese significa anche raccontare se stesso, alla ricerca di quelle che altrove sono state definite “le comuni radici terragne”, comuni, certamente, ma con sviluppi e esiti assai diversi. Per Pavese – nota Pierangeli – la ricerca delle “radici” si traduce in un processo di annichilimento di fronte all’ineluttabile destino, mentre Lajolo ne trae lo “spirito battagliero, deciso a vivere la realtà (e a cambiarla, se possibile) nel suo impatto più rude e immediato”.
L’idea delle radici ritorna e occupa un posto di rilievo nell’opera teatrale Il vizio assurdo (la stesura iniziale viene profondamente modificata nella rielaborazione condotta insieme a Diego Fabbri), di cui Pierangeli propone una ricognizione critica che non perde mai di vista la duplice prospettiva interpretativa – il mondo interiore di Pavese e quello di Lajolo – per ricostruirne consonanze profonde e altrettanto nette divergenze nell’atteggiamento di fronte alla vita (e alla morte).
Pavese, Lajolo, Fenoglio, “scrittori delle colline” tra Langhe e Monferrato, legati da “consonanze geografiche e sentimentali”, dall’atmosfera di un paesaggio in cui la luna, il sole, il cielo diventano “segni e sintomi del destino umano”. Da questa considerazione iniziale, Roberto Mosena sviluppa la riflessione attorno a Fenoglio nell’interpretazione che Lajolo delinea sia per varie sceneggiature (come La torta di Riccio del 1974 e la trasposizione cinematografica de Il partigiano Johnny, databile dopo il 1978), sia soprattutto nella biografia Fenoglio. Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe, pubblicata nel 1978. In primo piano, naturalmente, la Resistenza, che è il profondo motivo ispiratore, vorrei dire la pietra di paragone su cui Lajolo commisura il suo sguardo critico e anche il suo agire politico, la linfa che scorre in varie forme nel multiforme esplicarsi della sua attività e della sua scrittura e per lui – osserva Mosena- Fenoglio rimane il massimo interprete della Resistenza.
Ricostruendo “ la dicotomia tra Alba e le Langhe che attraverso tutta l’opera di Fenoglio, immergendo Fenoglio “nel rovello della sua terra e della sua gente”, Lajolo ritrova e approfondisce il suo stesso rapporto, così centrale e caratterizzante, tra il “centro” e la “periferia”, tra l’attaccamento a Vinchio e alla sua terra e l’apertura al mondo.
I confini tra Lajolo scrittore, poeta e critico, (oltre che giornalista e politico) sono incerti e fluttuanti; del resto, come è stato osservato da parecchi relatori in contesti diversi, il filone autobiografico è sempre presente nella sua opera e interpretando Pavese o Fenoglio, Lajolo continua a interpretare se stesso. Prosegue nell’esplorazione di queste connessioni il saggio di Luigi Surdich, che prende in esame I mè. Racconto senza fine tra Langhe e Monferrato (1977) e i saggi raccolti nel volume Poesia come pane (1973), che contiene i Raffronti Gozzano- Pavese e Pavese –Vittorini. In particolare Surdich dedica attenzione all’interpretazione di Gozzano, di cui Lajolo si occupa anche in un testo inedito, concepito per la radio.
Folco Portinari individua nel diario di Davide Lajolo 24 anni. Storia spregiudicata di un uomo fortunato – pubblicato nel 1981, ma concluso con la data “epocale” del 1969- molteplici e intrecciati piani di lettura: la storia in primo luogo, vissuta da protagonista, le vicende del Pci, la vita privata. o meglio tra privato e pubblico, dell’uomo politico, che fu anche uomo di cultura e scrittore, ma che rimane al fondo “il contadino con la sua filosofia”. Al centro di questo universo la Resistenza, non tanto nel suo farsi, quando nel dopo. Il 25 aprile 1945 non è sentito nel suo aspetto di vittoria, ma tutt’al più come un armistizio, l’inizio di “una storia nuova dalla quale siamo estromessi”, scrive Portinari, assumendo la prospettiva del lettore di oggi, coinvolto nella “ripetitività o specularità della storia”.
Il 26 aprile comincia una nuova guerra, la guerra fredda (e Lajolo, caporedattore de “L’Unità”, nel settembre 1945 viene condannato dalla Corte Alleata per un corsivo a difesa dei partigiani garibaldini arrestati a Vercelli). Portinari, commentando i punti salienti del diario, delinea la figura del “comunista testardo e scomodo” -l’unico, tra quanti pure erano stati fascisti prima di approdare al comunismo, che ha il coraggio di parlarne apertamente, di uscire allo scoperto pubblicando Il voltagabbana-, e mette in luce le tre parole chiave, i tre filoni che percorrono le pagine de 24 anni: comunismo, partito, partigiano. Ripercorrendo episodi e momenti del diario di Lajolo, Portinari non manca di evidenziare le “radici lontane” della situazione in cui oggi viviamo, a sottolineare la “totale attualità” di questo libro.
I ricordi di Ulisse, a proposito dell’anno cruciale, il 1956, e del XX Congresso del Pci, aiutano a scorgere la “diversa caratura morale e intellettuale dei dirigenti comunisti”, le “molte anime” di un partito troppo spesso rappresentato come monolitico. L’anima comunista di Lajolo è spesso inquieta e critica, ma l’insofferenza per la disciplina e il centralismo del partito viene sempre controllata e repressa nell’accettazione delle decisioni che vengono dall’alto e che gli tolgono la direzione milanese de “L’Unità”, fino alla mancata rielezione nel Comitato centrale.
Non c’è però solo la sfera politica: la passione per la letteratura e per l’arte – sostiene Portinari- ha una funzione di bilanciamento nei confronti delle logiche della politica, ma la ragione profonda della capacità di “ristabilire equilibri e attenuare frizioni”, come pure “per comprendere come stiano le cose del mondo”, risiede nella matrice culturale contadina di Lajolo, per cui la campagna appare come “una risorsa mentale o un parametro salvifico”.
Portinari, dunque, riallacciandosi idealmente a intuizioni e riflessioni avanzate da più parti nel corso del convegno, coglie con lucidità il segno unificante della personalità e dell’opera di Ulisse nel rapporto stretto e particolarissimo tra la sua terra, la sua campagna, il microcosmo di Vinchio e delle colline monferrine, e lo sguardo sul mondo vasto e terribile delle vicende umane, della storia nel suo divenire, che non ci si può limitare a contemplare, ma su cui si deve intervenire con l’agire politico, con l’intervento culturale. In questa prospettiva si ristabilisce il cerchio tra il politico, il giornalista, lo scrittore, nel rapporto tra il centro e la periferia, che già Dianella Gagliani individuava nel suo saggio, mettendo in luce la “doppia torsione “ di Lajolo tra il centro, che lo riscatta dal provincialismo, e la periferia, che lo ancora alla campagna e agli affetti familiari del “nido” di Vinchio: questa periferia lo salva dopo l’8 settembre, qui matura la scelta della Resistenza, e con la Resistenza la periferia diventa centro.
Grazie a questo rapporto, la vicenda esistenziale e le molteplici opere di Davide Lajolo possono consentire anche a noi di esplorare meglio il nostro personale rapporto tra la periferia in cui si svolge la “normalità” della vita quotidiana nella sua nicchia rassicurante e lo scenario sconvolgente e immenso che ci sta attorno e di cui pure siamo parte. Forse da questa prospettiva anche noi qualche volta possiamo scorgere I filari del mondo.