20/02/2014
La critica d’arte come storia di uomini - Di Maria Luisa Caffarelli
Il commento di Maria Luisa Caffarelli, curatrice della collezione e del catalogo della mostra permanente a Palazzo Monferrato ad Alessandria
Lo studio di Davide Lajolo è un luogo della vita. Il racconto per immagini di un’esistenza così ricca di eventi, persone, esperienze che quando l’ho visto per la prima volta sono stata tentata di dissuadere Laurana, la figlia, dal progetto di trasferire alla sede espositiva di palazzo del Monferrato la raccolta di dipinti e sculture appartenuti al padre, opere che con migliaia di libri sono di quello studio al tempo stesso l’arredo e il genius loci. Ho pensato che sarebbe stato come strappare un affresco dalle pareti dove era stato dipinto, sottraendogli anima e senso.
Sono tornata altre volte nello studio, sempre in punta di piedi, pensando a chi vi aveva abitato e lavorato, sempre senza stancarmi mai di aggirarmi, spinta dalla curiosità e dal desiderio di conoscere e scoprire, di avvicinarmi attraverso le sue cose all’uomo che per me era l’autore di Il vizio assurdo, la biografia di Cesare Pavese a cui, prima di quell’incontro, ho sempre associato la figura di Davide Lajolo. Sapevo della sua attività di critico d’arte, ma avevo letto pagine sparse e non molto di più. È stato approfondendo gli scritti di Lajolo sugli artisti, raccolti nel volume Gli uomini dell’arcobaleno che ho compreso quanto fosse giusta, tutta da condividere, l’idea di “traslocare” la collezione, all’interno di in un progetto di condivisione dell’arte che fin dai tempi de “l’Unità” Lajolo aveva messo in pratica, quando chiedeva agli artisti opere per il giornale, convinto che gli artisti dovessero scendere dal piedistallo e camminare accanto agli altri uomini nella contemporaneità. Così è andato avanti il progetto. E con convinzione si sta realizzando.
Il termine collezione riferito all’insieme di dipinti, disegni e sculture appartenuti a Davide Lajolo – che, per generosa volontà della figlia Laurana, palazzo del Monferrato accoglierà da ottobre 2012 nelle sue sale al terzo piano – è, se non improprio, certamente parziale. Collezione dal latino “colligere, cum legere” cioè “scegliere con” definisce storicamente una raccolta con carattere di sistematicità e soprattutto presuppone un intendimento, un progetto, che il collezionista persegue, insegue in taluni casi, dando letteralmente la caccia all’oggetto del desiderio.
Niente di più inadeguato per questo insieme felicemente disomogeneo e strutturalmente composito di opere. Che sono tutte doni. Doni di pittori e scultori che erano in primo luogo amici. Incontrati, conosciuti e frequentati da Lajolo come giornalista e scrittore. E poi raccontati come critico, seppure in un’accezione molto particolare. Opere d’arte, certo ma in primis, opere d’artista. Questa mi sembra la definizione più adatta a sottolineare la componente umana, essenziale per Lajolo. E, invece, spesso secondaria per il collezionista tipico, da questi talvolta deliberatamente ignorata, in un rapporto di feticismo che esclude dall’oggetto di collezione l’autore come fosse, in certi casi, un incidente di percorso, oppure quasi considerando l’opera come frutto di un ideale moto creativo globale. Opere d’artista quindi, opere di artisti e tutti amici. Come confermano le testimonianze pubblicate in appendice di Nerone – che gli scrive oggi una lettera commossa di saluto e rimpianto – di Guttuso, Unia e Bodini, scelte tra le molte che accoglie l’archivio dello scrittore.
Ogni singola prova è al tempo stesso un capitolo di storia dell’arte e un brano della biografia di Davide Lajolo, il quale amava raccontare i quadri attraverso gli uomini e, viceversa, gli uomini attraverso i quadri. Infatti sempre intese la critica d’arte senza alcun carattere di autoreferenzialità, non tanto, o meglio non solo, come analisi dell’opera in sé, ma prima di tutto come conoscenza delle più profonde motivazioni da cui l’opera scaturisce, dell’artista come individuo, della creatività come indissolubilmente legata all’esperienza, della critica, cioè, come frutto della conoscenza diretta dell’autore e del dialogo tra il critico e l’artista. Nel dibattito già molto acceso negli anni in cui si avvicinò all’arte la sua posizione potrebbe così essere sintetizzata: Lajolo è critico perché, come uomo, scrittore, poeta si sente vicino e solidale all'artista: sente un'affinità strutturale tra pittura e poesia, talvolta a prescindere dagli orientamenti, dalle scelte culturali che gli artisti fanno in vista dell'opera che si propongono di compiere e dell'influenza che intendono esercitare sulla cultura del loro tempo. Apprezza e valuta lo sforzo creativo, quando mira all’integrazione funzionale dell’arte nel divenire della società, non ricorre per raccontare “gli uomini dell’arcobaleno” ad argomentazioni astruse ed ermetiche, a un linguaggio speciale, ma plasma la sua lingua al racconto di storie che hanno come protagonisti i suoi amici artisti.
Ed è sempre, prioritariamente, interessato a cogliere i nessi vitali che legano l’artista al contesto, personale e sociale, tanto quanto è disinteressato, alieno dal mercato e dalle sue dinamiche. In molti casi infatti – diversamente da quanto abitualmente avviene nell’ambito del sistema dell’arte – l’opera è la sola forma di remunerazione passata dalle mani dell’artista al critico a saldo di una presentazione, di un intervento su un catalogo o di una pubblicazione.
Doni dicevamo, doni come coronamento di una collaborazione culturale e come modo per testimoniarla, nati da rapporti profondi di affinità e da comunità di intendimenti. Ma anche, in maniera in qualche misura profetica, frutto di una progettualità che fa parte della storia del giornalismo non meno che della storia dell’arte. Valga come primo, esemplare, l’episodio narrato – come tutti gli altri a cui faremo riferimento – nel volume Gli uomini dell’arcobaleno, pubblicato da Augusto Agosta Tota Editore nel 1984 in cui lo scrittore, in una sequenza di pagine per molti versi appassionante come micro racconti – dei quali un estratto viene pubblicato accanto a molte delle opere in catalogo – dà conto del suo incontro con l’arte fin dall’età giovanile e con gli artisti del suo tempo in età adulta.
Siamo a Milano, Lajolo dirige “l’Unità”. La Resistenza è stata per lui un’esperienza pervasiva, sul piano politico, sociale e culturale, dalla quale trae linfa e spinta al rinnovamento anche nel suo lavoro di giornalista e direttore di giornale; matura in tal senso la convinzione che la terza pagina debba essere rinnovata: “Non poteva più valere una pagina di bella scrittura con i servizi classici, il taglio per l’inviato speciale e la spalla con l’articolo storico. Bisognava dare alla cultura respiro più ampio, nuovo slancio. Scienza, arte, economia, ideologia, costume, i problemi di una società che voleva crescere dovevano trovare posto accanto alla letteratura”. (1) Notiamo per inciso che queste parole prefigurano l’impostazione che di lì a qualche anno i maggiori quotidiani daranno agli propri inserti culturali. La redazione di “L’Unità” si allarga con Lajolo a scrittori, artisti, operai. Discussioni e confronti sui temi dell’attualità politica si alternano a vere e proprie prese dirette sulla realtà. Nel 1951 il Po rompe gli argini. Lajolo organizza una vera e propria spedizione sul delta del fiume, teatro di una tragedia dell’acqua e del fango: giornalisti, scrittori tra cui Alfonso Gatto ed Elio Vittorini, critici come Raffaellino De Grada e Mario De Micheli, e un gruppo folto di artisti (Migneco, Tettamanti, Mucchi, Birolli, Ramponi, Treccani, Motti, Scalvini, Fantini) partono in pullman con l’intento di documentare dal vivo, ben oltre i fatti in sé, la verità di quel dramma collettivo. I pittori piazzano i loro cavalletti e realizzano paesaggi, ritratti disegni che hanno la forza della testimonianza sul campo, inoppugnabile e vera, ma trasmettono anche un’idea di “arte per l’umanità” in cui l’epos nasce da sé, si allarga a macchia d’olio e, attraverso lo scontro perdente dell’uomo con la natura nemica, simboleggia titanicamente la lotta contro ingiustizie meno ineluttabili ma storicamente altrettanto devastanti.
Quei disegni saranno pubblicati sulle terze pagine dell’Unità, ma avranno un altro, non meno importante utilizzo. Verranno impiegati come prove contro un rappresentante della forza dell’ordine il quale aveva tentato di impedire il comizio che Lajolo – straordinario oratore – sarebbe comunque riuscito a tenere a Lagosanto, circondato dai suoi pittori, e da centinaia di braccianti che uniti avevano fatto barriera a ogni tentativo di provocazione, in quel clima di caccia alle streghe che si respirava nell’Italia del secondo dopoguerra.
Il processo si concluse con la condanna annunciata di Lajolo, ma l’episodio, più di tanti altri che pure possiamo leggere, dà il senso in primo luogo di una stagione irripetibile per la cultura italiana, attraversata nei suoi protagonisti più illuminati dalla coscienza di un ruolo possibile nella società, quello che forse riduttivamente si sarebbe chiamato impegno ma, per quanto riguarda Lajolo ci permette di mettere a fuoco uno dei modi – forse il più originale, di considerare l’arte e l’artista. Il disegno vale come la notizia. È la notizia. La pittura entra nel quotidiano comunista non più sussidiariamente alla notizia ma come – e quasi più della fotografia – come registrazione di un fatto. Non si tratta di una diminutio, al contrario di un inusuale e parziale ribaltamento della critica sociologica. L’arte che viene influenzata, determinata dalla società e della storia, contribuisce, seppur marginalmente, a modificare la prima e a determinare il corso della seconda.
La prevalenza nell’insieme della collezione di opere d’arte da rubricare nell’ambito del figurativo non deve trarre in inganno: la sua non fu una scelta di campo dettata da preclusioni aprioristiche, ma il convergere di situazioni e incontri selezionati da una serie di prerequisiti: tra tutti primo l’onestà intellettuale, valore trasversale che appartiene al singolo e non alla corrente. Non si spiegherebbe diversamente la presenza tra i suoi amici artisti di personaggi in diversa misura legati all’astrattismo come Morlotti, Birolli, Brunori, Attardi, Ghinzani, Dova, Crippa – solo per citarne alcuni – e affermazioni come questa: “ […] il neorealismo cominciava ad essere messo in questione da quegli stessi che ne erano stati e ne erano ancora i protagonisti. L’astrattismo dava al confronto prova di vitalità. Si passò rapidamente dalla discussione alla sfida. C’era chi amava teorizzare in modo settario che l’astrattismo aveva radici reazionarie, non era che una fuga dalla realtà. Proprio queste forzature polemiche indebolivano il fronte dei figurativi e servivano a dimostrare che, come sempre, le divisioni manichee e schematiche finivano coll’avvantaggiare, forse più del necessario, chi portava il discorso sulla capacità di comunicazione e sulle nuove prospettive dell’astratto e dell’informale. Sulla terza pagina de “l’Unità” ci sforzavamo di tenere aperta la discussione, dando la parola agli uni e agli altri.” (2) Emerge una piena consapevolezza degli stereotipi in cui molti tendevano a incasellare i figurativi e gli astratti, e una apertura certamente non comune tra le file degli ortodossi, piegati alla causa del realismo dal celebre discorso di Palmiro Togliatti nell’ottobre del 1948 che definiva scarabocchi le opere di un gruppo di astrattisti viste a Bologna.
Proprio a causa della sua indipendenza di giudizio, che dall’arte si estendeva alla politica, facendone un personaggio assai scomodo, Lajolo dovette lasciare la direzione del quotidiano e fu eletto deputato del PCI per tre legislature, dal 1958 al 1972. Anche a Montecitorio, però, il suo amore per l’arte ebbe modo di tradursi in un’iniziativa importante e – come sempre – pionieristica.
Nel 1965, insieme con Sandro Pertini, riuscì a far approvare alla presidenza della Camera dei deputati l'istituzione di una commissione preposta all'acquisto di opere d'arte contemporanea per il palazzo di Montecitorio. Una collezione che è cresciuta negli anni, ed è patrimonio di tutti. Come la sua raccolta, ospitata oggi a palazzo del Monferrato: una sede che per il nome che porta sarebbe piaciuta anche a lui che sentiva il suo paese, Vinchio, a cavallo tra Langhe e Monferrato, come Ulisse la sua Itaca.