Associazione Davide Lajolo Odv

Saggi

10/02/2015

Insegnare la Resistenza 70 anni dopo

di Laurana Lajolo

Riflessioni sull’attualità

A 70 anni di distanza la Resistenza rimane uno snodo epocale della storia italiana e europea del ‘900 come percorso fondante della democrazia italiana e europea e  le complesse tematiche della storia del movimento di liberazione sono ancora interessanti ed efficaci per la formazione di una cittadinanza consapevole nelle nuove generazioni. Ma l’attuale anniversario della Resistenza richiede riflessioni diverse rispetto ai precedenti, perché le forme di conoscenza e il senso comune della società, con il trascorrere degli anni, delle situazioni storiche e dei mutamenti sociali, sono notevolmente cambiati, cancellando valori morali forti e condivisi riconducibili a quella esperienza storica. Si è indebolita la concezione stessa di nazione e di popolo e  i contenuti di cittadinanza attiva, indicati dalla Costituzione repubblicana, vengono spesso comunicati in modo frammentario, privilegiando elementi indotti superficialmente dai media e da emergenze politiche contingenti.

Le nuove generazioni, abituate ai brevi messaggi dei social networks, fanno una certa fatica a giungere a un  giudizio storico documentato e la storia ha perso di interesse nell’ambito della formazione. Naturalmente questo limite non può essere addebitato ai giovani, ma al magma informativo in cui sono inseriti. Lo stesso sistema scuola è spesso dipendente per le  ricerche e le tesine da Wikipedia. Internet è comodo e veloce, ma, se utilizzato in modo acritico, non può rendere la complessità della conoscenza e della comprensione dei processi storici.

Il MIUR caldeggia la diffusione delle tecniche innovative come importante strumento di innovazione per la didattica e di miglioramento dei processi di apprendimento anche nell’ultima Convenzione con l’ANPI (2014)[1],  ma, nel contempo, non interviene strategicamente per fornire ai docenti strumenti critici per la formazione professionale, che dovrebbe essere permanente. Gli stessi insegnanti, quindi, possono sentirsi “spaesati” rispetto alla sovrabbondanza della rete e reagire o con il rifiuto o con una superficiale accettazione. E’ evidente che gli strumenti tecnologici non sono neutrali e autosufficienti, quindi, in un panorama ancora confuso vengono ad essere necessarie adeguate competenze per la ricerca, la selezione e la certificazione delle informazioni reperite sul web. E i docenti, già oberati da impegni didattici e burocratici, non possono essere ulteriormente gravati dall’autoformazione di fronte a compiti nuovi per intercettare i nuovi stili cognitivi dei nativi digitali.

In specifico, per il periodo storico 1943-1945, il web mette a disposizione cronologie, brevi sintesi di un accadimento, biografie essenziali di protagonisti e personalità, elenco di film, qualche bibliografia. Si trovano molte informazioni, ma non ci sono le citazioni delle fonti, dei documenti e la contestualizzazione nello scenario generale dei singoli avvenimenti. Il modello privilegiato di comunicazione è quello della narrazione e non del linguaggio storico, per cui può diventare difficoltoso per i ragazzi passare dalle informazioni schematiche di internet  agli strumenti specifici della disciplina storica.

Mentre, dunque, mancano proposte ragionate e strutturate sulle tematiche resistenziali, va rilevato che per il centenario della prima guerra mondiale il MIUR, la RAI, diverse istituzioni locali e  scuole hanno immesso in rete materiali documentari e didattici di qualità e che tale anniversario ha “oscurato” quello della Resistenza nella programmazione scolastica  nella programmazione scolastica  nella programmazione scolastica  .

In questo ambito gli Istituti, per il patrimonio documentario conservato e per la sperimentata metodologia didattica, potrebbero svolgere un ruolo molto significativo nel predisporre percorsi per la didattica digitale.

 

La Resistenza come un caso emblematico

Le varie riforme, o meglio pseudo-riforme parziali e senza una visione sistematica, hanno semplificato  contenuti e linguaggi disciplinari e  hanno in parte svalutato la funzione formativa della scuola, ma, nel contempo, hanno reso più gravoso l’impegno degli insegnanti senza un corrispettivo riconoscimento economico. La precarietà, che contraddistingue lo stato di  servizio di molti docenti, è diventata anche la cifra della scuola e riflette la caratteristica fondamentale di una società liquida, frammentata e non più coesa. La mancanza di valori forti può ampliare la libertà del singolo, ma, senza parametri conoscitivi e etici, può, al contrario, massificare aspirazioni e bisogni delle nuove generazioni e determinare un senso individuale di insicurezza e di solitudine. Inoltre, la maggioranza dei giovani frequenta demotivata un percorso scolastico, che, ormai, non offre più sbocchi lavorativi sicuri e solidi.

In tale dimensione potrebbe essere particolarmente rilevante assumere il periodo resistenziale quale caso emblematico. Come in pochi altri processi storici, le vicende del movimento di liberazione dal fascismo e dal nazismo, per la pluralità delle sue componenti e per la stessa concentrazione di avvenimenti in un periodo molto circoscritto e quindi facilmente studiabile, possono essere un banco di prova molto fecondo per esercitare l’uso critico della ragione e il confronto con valori forti.  

In un mondo privo di memoria come quello in cui viviamo, diventa essenziale dare ai giovani, nel corso del loro processo di formazione, gli strumenti per misurarsi con il passato. Non avviene più il passaggio di memoria all’interno della famiglia e della comunità, non ci sono più i testimoni partigiani, portatori di una fonte di memoria viva ed emozionante,  e i giovani, deprivati di senso storico, sperimentano tutti i giorni, come gli adulti del resto, la società dell’incertezza.  Inoltre nel vissuto dei docenti attualmente in servizio è assente qualsiasi riferimento diretto alla Resistenza e a volte risulta carente la conoscenza storica di quegli avvenimenti.

In misura sempre minore la storia resistenziale entra nell’attuale dibattito culturale e politico e c’è da chiedersi se sia ancora possibile fare riferimento nell’insegnamento alla dimensione civile della Resistenza per comunicare alle giovani generazioni valori che non sono più considerati fondamentali per la convivenza civile, anche se le istituzioni democratiche italiane provengono dalla cultura politica resistenziale.

La Resistenza si intreccia, infatti, costituzionalmente con la storia d’Italia della seconda metà delò Novecento. Se si ripercorrono le fasi dell’insegnamento della Resistenza nella scuola italiana, la storiografia e  la memoria di quel periodo sono sempre state un problema non soltanto storico, ma culturale e politico.

 

Insegnamento della Resistenza e storia d’Italia

A scuola la Resistenza è stata di volta in volta taciuta e celebrata, dal “silenzio” alla monumentalizzazione e al “rovesciamento” revisionista, ed è un capitolo significativo non soltanto della scuola italiana ma anche della ricerca storiografica e dell’uso pubblico della storia e della memoria dal dopoguerra a oggi, con le ineludibili connessioni con le vicende politico-istituzionali[2].

A.    1945-65

Per circa un ventennio, dal 1945 al 1965 la storia della Resistenza non è stata prevista nei programmi scolastici in quanto episodio troppo recente e controverso dal punto di vista politico per essere insegnato. Quelli sono stati gli anni in cui le celebrazioni del 25 aprile erano indette e gestite esclusivamente dalle associazioni partigiane (spesso con manifestazioni separate tra ANPI, a cui aderivano partigiani comunisti, socialisti e azionisti, e le associazioni delle formazioni autonome) e da esponenti dei partiti di sinistra, mentre erano assenti le istituzioni e le autorità di governo. 

Soltanto nel 1965, anche grazie alle nuove aperture del governo di centro-sinistra, i partiti antifascisti hanno celebrato tutti insieme il ventesimo anniversario della Liberazione, sottolineando l’unità resistenziale sulla base di generiche tematiche antifasciste e lasciando in ombra le conflittualità interne alla lotta di liberazione.

Con molta cautela nei confronti dell’autorità scolastica che svolgeva rigidamente il ruolo di controllo del consenso al governo, alcuni insegnanti democratici, soprattutto nelle aree del Nord, hanno cominciato ad affrontare il tema in classe, commemorando il 25 aprile con messaggi valoriali riferiti alla vittoria sul fascismo e sul nazismo e alla ritrovata libertà e l’approccio ai temi resistenziali veniva delegato alla letteratura e alla memorialistica.

Il Ministero della P.I., dal canto suo, non ha preso alcuna iniziativa per favorire l’insegnamento della storia contemporanea, così che il programma di storia nelle ultime classi si concludeva al massimo con la prima guerra mondiale.

B.    I movimenti e la Resistenza

Negli anni Settanta, dopo l’esplosione del movimento studentesco e delle lotte operaie e l’avvio di una stagione intensa di ricerca storica e di sperimentazione didattica, i giovani insegnanti, che si riconoscevano nei valori dell’antifascismo e della lotta di popolo, hanno iniziato a insegnare  gli avvenimenti della Resistenza anche ricorrendo alle testimonianze dei partigiani in classe. 

Contemporaneamente storici e storiche di ultima generazione hanno studiato la documentazione delle brigate partigiane e raccolto i racconti dei protagonisti, hanno preso in considerazione l’apporto delle popolazioni civili, individuando nuovi parametri e nuove categorie storiografiche per coniugare la ricerca documentaria con l’uso delle fonti di memoria. Cantautori  e scrittori si sono ispirati ai canti partigiani per comporre nuove canzoni popolari di forte impegno civile.

In questo quadro ha assunto un rilievo particolare l’uscita del volume Resistenza e storia d’Italia[3] di Guido Quazza, presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia e maestro di una nuova generazione di storici all’Università di Torino. L’opera ha rappresentato  una svolta nel panorama storiografico e una nuova sistemazione della valenza storica della Resistenza nella storia d’Italia, modificando l’impianto preminentemente politico della Storia della Resistenza di Roberto Battaglia, uscita all’inizio degli anni Cinquanta.[4] Il nucleo fondante dell’interpretazione di Quazza era che la Resistenza è stata in larga parte un movimento spontaneo, che ha visto per la prima volta la partecipazione e il protagonismo di giovani, contadini e operai, alle vicende nazionali.

In occasione del trentesimo anniversario della Liberazione, Quazza ha promosso l’istituzione di nuovi Istituti provinciali per la storia della resistenza, costruendo la rete nazionale di enti associati all’INSMLI, fondato a Milano nel 1949 da Ferruccio Parri, avviando una stagione di ricerca soprattutto sul rapporto tra antifascismo e lotta di liberazione.  

C.    Il Presidente partigiano

Agli inizi degli anni Ottanta è stato il “presidente partigiano” Sandro Pertini, con il suo carisma trascinante, a dare massima legittimazione e ufficializzazione ai valori della Resistenza come fondamento insopprimibile della democrazia italiana e baluardo unitario contro il terrorismo rosso e nero che stava insanguinando l’Italia.

Nel 1985 il Ministro dell’Istruzione, la democristiana Franca Falcucci, ha invitato tutte le scuole a ricordare il 25 aprile come data nazionale e ha autorizzato gli Istituti storici della Resistenza ad entrare nelle scuole. Sono stati utilizzati pubblicazioni di memorie e studi locali, film e documentari che riguardavano principalmente il ruolo dell’antifascismo e gli scontri armati. La conoscenza del movimento di liberazione in classe è stata affidata in larga parte alla parola del testimone, il quale, proprio per la volontà di trasmettere un messaggio positivo ai giovani, era spesso reticente su situazioni e contesti controversi per non offuscare l’esemplarità dell’esperienza partigiana. I partigiani narravano le azioni militari più importanti e nel contempo trasmettevano agli studenti le emozioni della esperienza formativa più significativa della loro vita.

In quegli anni alcuni Istituti per la storia della Resistenza si sono impegnati sul versante della didattica e hanno  proposto nuove forme di ricerca storica sulle fonti orali e visive, mettendo a punto una metodologia adeguata ad un approccio critico basato sulle fonti documentarie e storiografiche. Molto forte era il riferimento all’impegno civile per la libertà[5].

D.   Il revisionismo storico e l’identità nazionale

Gli studi su Mussolini di Renzo De Felice[6], sottolineando il consenso al regime, hanno avuto  un importante impatto storiografico e culturale, mentre qualche reduce della Repubblica sociale italiana ha pubblicato le memorie, riportando anche un successo editoriale comeCarlo Mazzantini con A cercar la bella morte[7].

Nel corso degli anni Ottanta e Novanta si è diffuso in Italia il revisionismo storico[8] e si è affermato un “rovesciamento” della storia e della memoria della Resistenza. Alcuni storici hanno introdotto gli argomenti della morte della patria e della violenza comunista nel dopoguerra[9]. In quel clima culturale e politico ha avuto una buona accoglienza la richiesta della pacificazione tra fascisti e partigiani nel quadro di una ritrovata identità nazionale, rivolta sostanzialmente all’equiparazione tra le due scelte (RSI e formazioni partigiane) senza affrontare un giudizio critico sulle responsabilità politiche e morali delle due parti, ma anzi giungendo alla giustificazione morale della scelta dei “ragazzi di Salò”. Si è messa in discussione la Resistenza come matrice politica e culturale della Costituzione repubblicana e come fondamento del valore identitario nazionale. 

La divulgazione storica presso il largo pubblico veniva sempre più egemonizzata da televisione e giornali, con un ampio uso pubblico della storia[10]. Interessante è l’analisi fatta da Peppino Ortoleva sulle tecniche di manipolazione del mezzo televisivo e dei giornali, che ricostruiscono gli avvenimenti attraverso la decontestualizzazione del singolo fatto storico rispetto allo scenario generale, l’enfatizzazione dell’evento, il gioco sui sentimenti e le emozioni, la scarsa incidenza della documentazione storica, la sopraffazione delle immagini sul testo[11].  Come ha evidenziato Giovanni De Luna il “caso” storico viene creato dagli stessi media, che  stabiliscono la priorità del dibattito storiografico, anche se quel “caso” non è affatto suffragato da documenti in grado di modificare gli studi. Il serio lavoro dello storico rimane in sede accademica e non raggiunge il largo pubblico. Fa notizia l’abiura, la confessione in pubblico, la rivelazione, non l’uso critico dei documenti. De Luna ha, quindi, dato alcune indicazioni metodologiche per la ricerca e la didattica della storia[12].

E.    Anni Novanta. La memoria “divisa”

A metà degli anni Novanta con l’entrata nel governo di centro-destra del partito di ispirazione fascista, le polemiche culturali e politiche hanno avuto come obiettivo quello di demolire definitivamente una paventata egemonia culturale di matrice comunista, che aveva la sua radice nella Resistenza. In particolare riguardo alla scuola si è sviluppata una campagna politica contro insegnanti e libri di testo dichiarati “di sinistra”, a cui era contestato un insegnamento fazioso e una presentazione lacunosa dei fatti storici, evidenziando in particolare l’omissione del riferimento alle foibe. Si sono equiparati i Lager ai Gulag secondo l’ipotesi della parificazione di responsabilità tra i due totalitarismi del Novecento sulla base della considerazione che le efferatezze del nazismo erano giustificate dal pericolo sovietico.  Sul web si sono moltiplicati i siti di ispirazione nazista e negazionisti.

Il revisionismo ha aperto anche la problematica dell’identità nazionale, di cui la Resistenza è argomento ineludibile. Infatti è proprio intorno alla memoria “divisa” della Resistenza che si sono accese le polemiche più violente, giungendo a disconoscere il carattere nazionale del movimento di Liberazione, relegato a una minoranza armata e considerato di scarsa impatto militare rispetto all’intervento degli Alleati. L’intento polemico era quello di ridimensionare la valenza storica della scelta resistenziale e della rappresentanza nazionale della cultura antifascista  e evidenziare il tema della guerra civile. Nella seconda metà degli anni Novanta lo snodo cruciale è diventata l’interpretazione dell’8 settembre non soltanto come sfascio dello Stato, ma come “morte della patria”, secondo la definizione di Ernesto Galli della Loggia[13].

Sull’identità nazionale e sulla valutazione storico-politica della Resistenza ha agito anche la crisi dell’antifascismo come fondamento dell’identità nazionale, studiata tra gli altri da Nicola Gallerano[14]. A tale proposito Sergio Luzzatto ha sostenuto che, dopo la caduta del comunismo, la cultura antifascista va comunque salvaguardata come sentimento nazionale[15].

Quel dibattito storiografico e politico ha richiesto  agli insegnanti più avveduti una riflessione sulla complessità dell’uso pubblico della storia per tenerne conto nell’approntamento dell’apparato critico e metodologico degli argomenti da proporre agli studenti.

F.    Nuova storiografia e ricerca didattica degli Istituti

Nel mezzo dell’acceso dibattito storiografico sul revisionismo storico, nel 1991 Claudio Pavone ha pubblicato Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza[16]. L’accurata ricostruzione storica, che ha ampiamente utilizzato gli archivi locali degli Istituti, ha offerto il quadro interpretativo delle diverse componenti della Resistenza, dal versante militare a quello politico, da quello culturale a quello sociale, evidenziando tre livelli: la guerra patriottica, la guerra civile e la guerra di classe. Per leggere anche gli aspetti controversi del periodo, Pavone ha elaborato specificamente due categorie storiografiche: la scelta dei giovani nel 1943 e la violenza, compresa quella partigiana.

Sollecitati dalla stimolante interpretazione di Pavone, tra il 1993 e il 1995, la rete degli Istituti ha messo a punto percorsi didattici riguardanti la soggettività dei partigiani e il carattere della “scelta”, la violenza fascista e partigiana, la resistenza civile delle donne, le condizioni della vita quotidiana della popolazione, la stratificazione della zona grigia. Dal 1996 la didattica degli Istituti è stata ufficializzata da un Protocollo d’intesa con il Ministero P.I.. Per il cinquantesimo della promulgazione della Costituzione (1998), gli Istituti hanno approfondito la relazione tra antifascismo, Resistenza  e Carta  costituzionale.

Si sono sperimentate alcune piste di ricerca anche sulla memoria dei luoghi della Resistenza, facendo riferimento sia agli studi storici sia alla memorialistica e alle fonti orali. I luoghi della Resistenza, corredati anche da percorsi didattici strutturati, rappresentano un riferimento importante perché sono teatro di memorie e  storie individuali e collettive di uomini e donne che in quei luoghi combatterono e soffrirono le conseguenze della guerra.L’Istituto per la storia della Resistenza della società contemporanea in provincia di Alessandria ha condotto alcuni seminari affrontando dal punto di vista metodologico e contenutistico la relazione tra memoria e luoghi e ha pubblicato il volume a  cura di Luciana ZiruoloI luoghi, la storia, la memoria, corredato da un apparato didattico[17].

G.   Le giornate della memoria

Alla fine degli anni Novanta (1998), dopo un lungo e colpevole silenzio istituzionale, in occasione del sessantesimo anniversario della promulgazione delle Leggi razziali da parte del regime fascista, si è aperta una stagione della memoria dello sterminio ebraico, a cui hanno partecipato attivamente l’INSMLI e gli Istituti della rete. Nel 2001 viene approvata la legge istitutiva del “Giorno della memoria” nella data della liberazione del Lager di Auschwitz (27 gennaio) e la memoria della Shoah ha avuto larghissima diffusione nella scuola, come se, in un periodo contrassegnato da forti conflitti e da  profonde incertezze, docenti e studenti fossero in attesa di ricevere valori assoluti e, nel contempo, estranei a  esplicite influenze politiche. Ma è stata pressoché dimenticata la deportazione politica.

Vittorio Rapetti ha riflettuto sul fatto che la nascita delle “giornate”, come tutte le situazioni in cui si rende “istituzionale” un ricordo, si presta a un duplice esito: da un lato stimola e sollecita una riflessione diffusa che chiama in causa le istituzioni e in particolare la scuola, dall’altro lato come tutte le forme celebrative rischia di assumere tratti retorici e ripetitivi e domanda una vigilanza sulla sua gestione. Inoltre tale tipo di memoria istituzionale si trova a fare i conti con la trasformazione antropologica dei giovani, esposti a subire le menzogne della storia, mentre il contesto politico e culturale rende sempre più difficile questo genere di memoria non scontata e ancora scomoda[18].

Privilegiando la considerazione valoriale dell’argomento, piuttosto che un’analisi storicizzata sugli aspetti complessi e plurimi della deportazione, nelle classi è spesso prevalsa la tendenza a evidenziare la violenza nazista dello sterminio del popolo ebraico come “male assoluto”, “astorico”, “metastorico”. Molti docenti scelgono di mettere in rilievo le emozioni e i buoni sentimenti a scapito della riflessione critica. Così si alimenta nei giovani una buona coscienza dei diritti umani, senza, però, sconfiggere il razzismo e il rifiuto del diverso, che riemerge nella quotidianità dei comportamenti. Ma, nonostante ripetizioni rituali, va riconosciuto che con le giornate della memoria alcune questioni cruciali della seconda guerra mondiale sono diventate centrali nell’insegnamento della storia del Novecento.

H.   Il nuovo curricolo di storia e la ricerca didattica degli istituti

Nel novembre 1996 il Ministro Berlinguer ha modificato il curricolo di storia, stabilendo che l’ultimo anno delle superiori fosse dedicato all’insegnamento della storia del Novecento. Il Ministero P.I. ha, quindi, istituito corsi di aggiornamento dei docenti in collaborazione con l’INSMLI, che hanno dato nuovo impulso alla ricerca didattica sulla storia contemporanea. Per la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti le sezioni didattiche degli Istituti hanno svolto un intenso lavoro collettivo, individuando le periodizzazioni, le rilevanze e le categorie interpretative del Novecento e hanno predisposto un’avanzata metodologia della ricerca didattica e dell’insegnamento. Hanno organizzato complessivamente circa 400 corsi di formazione sia a livello nazionale che locale. Il modello formativo si è articolato su due livelli: l’acquisizione da parte dei docenti di professionalità e competenze sulla base della struttura epistemologica della disciplina, e la sperimentazione di percorsi didattici su fonti documentarie di varia tipologia[19].

L’IRRSAE del Piemonte, in occasione del 50° anniversario della Liberazione (1993-1995), ha elaborato il “Progetto storia” per individuare i nodi storiografici, elaborare percorsi e mappe concettuali a sostegno dell’insegnamento della storia contemporanea nelle scuole secondarie, con la partecipazione dei docenti[20]. Nel 2001, sempre in Piemonte, si è costituita  la Commissione Regionale per l’insegnamento della Storia  presso la Direzione Scolastica Regionale con il compito di  valorizzare le esperienze didattiche innovative nei diversi ordini di scuola delle province piemontesi. Sono state, quindi, selezionate a livello regionale alcune proposte, elaborate anche con il contributo degli Istituti delle Resistenza, presentate in un convegno a Torino[21].

Quando il Ministero non ha più riconosciuto i crediti ai docenti per i corsi di aggiornamento, l’INSMLI ed il LANDIS si sono dedicati, in collaborazione con l’Istituto nazionale di documentazione per l’innovazione e la ricerca educativa (INDIRE), alla formazione a distanza dei docenti nuovi assunti e quelli coinvolti nelle sperimentazioni, producendo molti materiali anche sulle nuove tecnologie[22]. In quel periodo la Commissione di Formazione dell’INSMLI ha focalizzato l’attenzione sulla Costituzione, elaborando il progetto “Educazione alla cittadinanza” e organizzando nel dicembre 2009 il seminario “Cittadinanza, Costituzione, Insegnamento della storia. Percorsi e prospettive”[23]. Ha anche proposto un curricolo di storia centrato su un processo continuo di sviluppo delle competenze aperte alla mondialità.

Aurora Delmonaco e Maurizio Gusso, in un documento della Commissione Formazione dell’INSMLI non hanno, però, sottaciuto le difficoltà di formazione degli insegnanti di storia nel nuovo secolo: “La complessità degli eventi e l’accelerazione della crisi dei sistemi e delle relazioni politiche, economiche, sociali, culturali che ci introduce alla “seconda modernità” nell’orizzonte mondiale, le mutazioni problematiche e le spinte che provengono dal panorama europeo, i molteplici problemi del contesto nazionale hanno costituito sul terreno della formazione lo sfondo di contrastanti impulsi per la riforma di una scuola sempre più scossa e oscillante fra innovazioni e difesa di rassicuranti consuetudini. Si sono verificate, inoltre, scorrerie di tipo ideologico nel campo dell’insegnamento della storia, per costruire e consolidare un senso comune in alternativa alle più forti e consolidate lezioni della storiografia”[24].

         I. Il Sessantesimo anniversario e la pacificazione

Nel 2004 è uscita una nuova ricostruzione della Resistenza per opera dello storico Santo Peli[25], il quale ha articolato la sua storia in due parti: la prima destinata a una sintetica ricostruzione dei fatti e la seconda centrata sui nodi storiografici, rivisitati attraverso le interpretazioni sviluppate in cinquant’anni.  Per dare conto della complessità del movimento di Liberazione Peli ha connesso i venti mesi con il fascismo,  in particolare con il processo di spoliticizzazione della società, ed è ritornato ad utilizzare ampiamente l’ottica dei protagonisti,  ricostruendo il coacervo delle motivazioni “non politiche” e delle concrete determinazioni storiche (ad esempio le sconfitte italiane nella seconda guerra mondiale), che resero possibile la nascita e lo sviluppo del movimento partigiano. La sua conclusione è che la Resistenza è durata  troppo poco per produrre il cambiamento radicale della società, che rappresentò la grande utopia dei suoi protagonisti.

In occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione è stato lo stesso Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ad aprire le celebrazioni, sottolineando i temi della patria e rivalutando l’apporto delle forze armate italiane alla lotta contro il nazismo. Ciampi ha anche dato molta rilevanza istituzionale al ricordo dell’eccidio di Cefalonia come primo atto di resistenza italiana all’esercito nazista, ma ha anche presieduto alla commemorazione di El Alamein a fianco del Ministro Tremaglia e dei reduci nostalgici fascisti per ricordare i soldati caduti in quella sconfitta.

Nel 2005 sono usciti parecchi volumi di divulgazione storica e i media hanno, in larga parte, rappresentato la Resistenza  attraverso le violenze dei partigiani durante la guerra e nel dopoguerra per sottolineare la necessità della pacificazione: i morti sono tutti uguali indipendentemente su quale fronte abbiano combattuto e per quali ideali. 

 

Le nuove  metodologie didattiche: il laboratorio di storia e il caso di studio

Il nucleo fondante della nuova didattica della storia elaborata dagli Istituti della Resistenza è il laboratorio, non solo come luogo fisico, ma principalmente come prassi  metodologica: il docente  fa lavorare gli allievi sull’uso critico delle fonti, partendo dai documenti originali opportunamente selezionati, per far sperimentare agli studenti le procedure complesse e problematiche della ricerca storica. Vengono proposti episodi di storia locale inquadrati nella storia nazionale così da contestualizzare singoli avvenimenti nel processo storico generale.

Applicando la metodologia laboratoriale i docenti elaborano un progetto di ricerca coniugando il sapere cognitivo con il saper fare: non si tratta soltanto di insegnare e di imparare la storia, ma di “fare storia”, attraverso un lavoro di gruppo, che metta in stretta correlazione il sapere storico degli insegnanti e l’apprendimento degli studenti attraverso l’interscambio di conoscenze, di competenze e di esperienze. A supporto i docenti  predispongono documenti e bibliografie, riferimenti utili sul web. Seguendo questa metodologia, oltre al ruolo di organizzatori di sapere, diventano essi stessi ricercatori di storia, assumendosi la responsabilità educativa e cognitiva di procedere, all’interno del programma, alla scelta delle rilevanze, dei contenuti, della strumentazione didattica[26]

Gli studenti, a loro volta, imparano a usare criticamente fonti primarie e secondarie multidisciplinari e multimediali, a formulare un’ipotesi di ricerca e ad operare la verifica sui documenti opportunamente selezionati, a concludere il progetto e a utilizzare diverse forme di comunicazione, dalla relazione scritta al video all’ipertesto. Gli esiti delle ricerche possono essere anche imperfetti, ma i giovani, lavorando su documenti originali e a volte inediti di avvenimenti locali, imparano in modo attivo e coinvolgente a dare senso e ad  interpretare storicamente situazioni, fatti, processi e ad acquisire gli strumenti per ordinare i passaggi storici[27].

Il metodo laboratoriale è indubbiamente complesso e richiede tempo, pertanto il pedagogista Antonio Brusa ha elaborato la nuova proposta didattica dello “studio di caso”. Questo strumento rientra nell’ambito della didattica partecipata, cioè un complesso di attività con le quali non si comunica agli allievi una conoscenza storica compiuta (come succede attraverso la lezione, o la visione di un film, di un documentario o durante una visita guidata), ma si chiede loro di collaborare alla costruzione di quella conoscenza. Lo studio di caso si colloca a metà fra il documento strutturato, presentato nei manuali, e il laboratorio storico.

Uno studio di caso si avvale di un testo esperto per i docenti  corredato da bibliografie e sitografie, un breve testo per gli allievi autosufficiente rispetto al tema che si vuole trattare; un dossier, che può essere composto da soli documenti o con aggiunta di brani storiografici, tabelle, immagini, cartine in numero contenuto con le corrette indicazioni identificative per ogni documento; infine un’indicazione metodologica concisa. Il docente fa la lezione, sceglie uno o più documenti e invita gli studenti a trovare i raccordi tra i due blocchi. In questo modo costruisce uno “studio di caso”, che risulta più semplice e facile da costruire di un laboratorio e da svolgere in classe e può durare anche un tempo breve. Mentre il laboratorio storico punta sempre al doppio obiettivo: costruire  conoscenza storica e far acquisire agli studenti alcune capacità di ragionare storicamente, lo studio di caso punta fondamentalmente al trasferimento attivo di una conoscenza. E’ sostanzialmente una mediazione fra tradizione e modernità, perché può essere inserito anche in una programmazione tradizionale composta prevalentemente da lezioni. Brusa consiglia, dunque, di utilizzare tutti gli strumenti didattici a seconda degli obiettivi che ci si propone, sapendo che la lezione comunica in sintesi i quadri generali, il laboratorio le nozioni metodologiche e epistemologiche,  mentre lo studio di caso coinvolge gli allievi nella didattica partecipativa[28].

 

Un programma di ricerca per la didattica digitale

L’INSMLI, con la partecipazione degli Istituti storici associati, ha organizzato nel 2013 e nel 2014 due corsi nazionali di formazione dei docenti su digital public history e risorse didattiche in rete. Il primo corso ha esaminato l’offerta internet della cultura storica della contemporaneità e dei percorsi per la scuola in ambiente digitale, mentre la seconda edizione di .storia@ ha avuto come tema centrale la Resistenza e la seconda guerra mondiale.  Nel secondo corso è emersa la proposta di un nuovo programma di ricerca sulla didattica della storia per affrontare il passaggio di paradigma negli stili di apprendimento e nelle modalità della ricerca storica, rispettando, lo statuto epistemologico della disciplina, la scientificità dei criteri di ricerca e di comunicazione storica anche nell’utilizzo dei materiali della didattica digitale[29].

Ha partecipato al corso anche Serge Noiret, convinto sostenitore della public history, già sperimentata nei paesi anglosassoni, che ha proposto l’integrazione del sapere storico con la web history. . Riconoscendo il ruolo cruciale dei media, Noiret considera  la public history un modo democratico di fare storia, perché si rivolge a un largo pubblico non di specialisti, eludendo la differenza metodologica ed epistemologica tra fonti storiografiche e uso della memoria e favorendo la costruzione di una memoria in ambito virtuale. In tale dimensione si intende che la storia è ricostruita partendo dai soggetti e dalle loro memorie e si può intervenire direttamente all’interno degli archivi digitali secondo la filosofia dei social networks, costruendo “nuovi” oggetti storiografici.

Secondo i suoi ideatori la “storia pubblica” rappresenta un aggiornamento del metodo di fare storia nel senso che si riferisce esplicitamente al presente e diventa, quindi, uno strumento molto efficace anche per indirizzare le politiche pubbliche e private, le iniziative legali, gli studi di mercato, le tradizioni e quindi anche la politica. Infatti la società virtuale “posta” sui nuovi media pratiche politico-emozionali di individui e di gruppi e tali passioni, riprese dai politici, vanno a decidere le sorti della democrazia[30].

E’ chiaro che secondo queste indicazioni vengono modificate la concezione della storia e le metodologie storiografiche e, quindi, gli Istituti, che si caratterizzano per consolidate competenze ed esperienze didattico-disciplinari, sono chiamati a un confronto impegnativo. Per mantenere lo statuto specifico della storia e il rigore dell’insegnamento servono proposte scientificamente validate per la formazione, progetti modulari e didattiche attuabili nell’insegnamento e nell’apprendimento del sapere storico, senza soccombere alla spinta di una “rivoluzione digitale”, che può far perdere l’autenticità dei documenti e destrutturare l’autorialità delle fonti.

E’, infatti, indispensabile  la consapevolezza critica dei rischi dell’era digitale non per rinunciarvi, data la sua pervasività nella vita quotidiana, ma  per fornire strumenti per un uso corretto del web. Come hanno sosteuto Ivo Mattozzi e Antonio Brusa durante il corso di aggiornamento, lo statuto epistemologico disciplinare da rispettare rimane l’orientamento geo-temporale degli eventi, il controllo delle fonti, la prospettiva della word history  e le operazioni cognitive del sapere storico.  Il nodo cruciale è ovviamente una formazione degli insegnanti in grado di dare strumenti per intervenire nei processi di apprendimento di allievi che utilizzano prevalentemente codici digitali anziché alfabetici, integrando vecchi e nuovi linguaggi dei libri, dei documenti e  della rete. La scuola ha, quindi, anche il compito di rendere consapevoli gli studenti della struttura  e delle  regole digitali[31].

 

Quale insegnamento?

In conclusione è legittimo chiedersi come proporre, a 70 anni di distanza, lo studio della storia e della memoria del movimento di liberazione, tenuto conto che la Resistenza ha perso la sua attualità nel presente ed è considerata un episodio concluso della storia del secolo scorso e, per ora non sono annunciate pubblicazioni di studi storici di aggiornamento sull’argomento. Inoltre, l’uso pubblico della storia ha modificato la memoria degli avvenimenti traumatici della guerra, mentre le nuove tecnologie spesso sostituiscono la conoscenza diretta dei documenti originali con narrazioni soggettive. Lo stesso insegnante deve fare i conti con la propria memoria connessa con il suo vissuto, poiché egli stesso è testimone di storia, cioè insegna la storia contemporanea che coinvolge, almeno parzialmente, la sua esperienza di vita, i suoi ascendenti culturali, le sue appartenenze sociali e politiche. 

Tali nodi problematici vanno messi a confronto con le abilità e le competenze dei ragazzi, immersi in una società che ha svalutato la storia e i valori, privilegiando l’evento decontestualizzato. Tutto questo rappresenta una sfida vera e propria che i docenti devono affrontare professionalmente.

In questa riflessione va tenuto presente che il funzionamento della scuola va sempre a incidere sulla qualità e la  sostanza della democrazia, perché interviene, anche quando non se lo pone come obiettivo esplicito, nella formazione della cittadinanza consapevole delle giovani generazioni. L’insegnamento della storia della Resistenza nel tempo presente può essere chiamato a rispondere sostanzialmente a due obiettivi. Il principale è l’uso critico delle fonti documentarie e di memoria e, andando oltre alla ricostruzione degli avvenimenti militari, al fine di approfondire le componenti politiche e sociali che connotarono il coacervo della seconda guerra mondiale in Italia. Il secondo obiettivo è quello dell’educazione all’uso della memoria nell’ottica di considerare memorie plurali e diverse che ancora incidono, in modo più o meno latente, sul nostro presente e che spesso sono manipolate da ricostruzioni parziali e finalizzate a revisioni ideologiche. Alla luce della conoscenza storica bisogna rispettare la pluralità delle memorie piuttosto che ricercare forzosamente una memoria condivisa, propugnata con il richiamo a una pacificazione storica che può rivelarsi ambigua e piegata alle esigenze della politica[32].

La partecipazione alla cosa pubblica e la conoscenza della storia contemporanea  può essere avulsa dalla lezione della libertà resistenziale? Quale ruolo nel nuovo contesto sociale e culturale possono svolgere gli Istituti con la loro metodologia del “fare storia” e con il loro bagaglio di valori civili? E’ una questione cruciale, che comporta di rinnovare la capacità di progettare e produrre ricerche di valore scientifico in collaborazione con gli studiosi, gli storici del territorio e i docenti di storia. Non si tratta di ripetere schemi, ma di plasmare la documentata interpretazione storica sulle esigenze di conoscenza degli studenti, proponendo loro il metodo dello storico, ma anche valori con cui confrontarsi. I ragazzi hanno bisogno dello studio del passato per poter maturare le scelte esistenziali e i giovani del ’43 che, in pieno conflitto e a rischio della vita, hanno scelto di combattere per la libertà possono essere per loro dei “buoni maestri”.

 

*Saggio pubblicato sul n. 56 di “Quaderno di storia contemporanea”, Isral, 2014.

 



[1] Cfr. Convenzione Miur – Anpi 24.07.2014. In essa si legge che le “parti si impegnano in particolare nella realizzazione di un programma comune di attivitàarticolato nei seguenti punti:- fornire contenuti e materiali di qualità per l’apprendimento delle discipline storiche,assicurando opportunità di studio, ricerca e approfondimento con particolare riguardo ai temiinerenti al movimento di liberazione e all’età contemporanea; - progettare strumenti didattici, di orientamento, mentoring e tutorato rivolti agli studenti al fine di rendere possibile l’utilizzo delle tecnologie internet e social; - promuovere attività di scambio, formazione, seminari e conferenze su temi e metodi della didattica e pedagogia dell’insegnamento della storia; - realizzare materiale informativo, anche di tipo multimediale e via internet, destinato aglistudenti ed ai.I supporti tecnici e logistici al progetto saranno offerti dagli Uffici Scolastici Regionali e il MIUR svolgerà azioni di impulso e di coordinamento tra i diversi interlocutori pubblici e governativi e implementerà le azioni dirette a consolidare l’impegno pubblico nella promozione delle attività previste, stanziando le risorse finanziare, mentre  L’ANPI, si impegna a mettere a disposizione il proprio patrimonio storico e culturale anche attraverso il lavoro degli associati delle sedi territoriali.

 

[2] Cfr. G. Bertacchi, L. Lajolo, Resistenza a scuola,  in “Quaderno di storia contemporanea”, n. 34, 2003, Alessandria, Isral.

[3] G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Milano, Feltrinelli, 1977.

[4] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953.

[5] Cfr. F. Ciuffi, Costruzione della memoria e/o  uso pubblico della memoria e della storia in Problemi della contemporaneità. Storiografia testimonianza Memoria delle generazioni.Seminario di formazione per docenti della scuola secondaria superiore, Quaderni del Ministero della Pubblica Istruzione n. 38, Cuneo, marzo 1999.

[6] R. De Felice, Intervista sul fascismo, Bari, Laterza, 1977, tra il 1965 e il 1977 l’autore pubblica la biografia di Benito Mussolini presso l’editore Einaudi.

[7] C. Mazzantini, A cercar la bella morte, Milano, Mondadori, 1986

[8]  E. Nolte, Il passato che non passa, Torino, Einaudi, 1987; G.E. Rusconi (a cura di), Germania, un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987; E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozione, revisione, negazione, Roma-Bari, Laterza, 2000.

[9] E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Bologna, Il Mulino, 1998: G. Belardelli, L. Cafagna, E. Galli della Loggia, G. Sabbatucci, Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999.

[10] N. Gallerano (a cura di), L’uso pubblico della storia, Milano, Francoangeli, 1987

[11] P. Ortoleva, Mediastoria, Firenze, Passigli, 1993.

[12] G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, Firenze, La nuova Italia, 1993; Lapassione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, RCS-La nuova Italia, Milano, 2001.

[13] E. Galli della Loggia, La morte della patria, Roma-Bari, Laterza, 1996.

[14] N. Gallerano, La verità della storia. Scritti sull’uso pubblico del passato, Roma, Manifestolibri, 1989, L. Lajolo, I mass-media e il passato, in G. Bertacchi, L. Lajolo, L’esperienza del tempo. Memoria e insegnamento della storia, Torino, Ega, 2003.

[15] S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, Einaudi, 2004.

[16] C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

[17] Seminario “La didattica dei luoghi della memoria”, a cura di Nadia Baiesi, 28 marzo 2006; Convegno “La memoria delle Alpi – Storia e didattica dei luoghi”, Alessandria 4,5 maggio 2006: le relazioni hanno preso in considerazione le zone della Bendicta, di Ponzone-Piancastagna e della Val Borbera;  Giornata di formazione “Insegnare la Benedicta”, 7 settembre 2006, in cui sono stati trattati le vicende locali, la vita delle popolazioni e l’intreccio tra storia locale e storia nazionale; L. Ziruolo (a cura di)I luoghi, la storia, la memoria, Recco-Genova, Le Mani, 2008

 

[18] V. Rapetti, Ricordare ancora la shoah? In “Quaderno di storia contemporanea 49, Isral, 2011

 

[19] A. Sgherri, I percorsi didattici: metodologia e prodotti, in Fare storia. La risorsa del Novecento – Gli Istituti storici della resistenza e l’insegnamento della storia contemporanea 1996-2000, Milano, Insmli, 2000.

[20] IRRSAE Piemonte, Progetto storia, Torino, 1995-1996

[21]La selezione dei materiali è pubblicata in (a cura di) Cristina Vernizzi Storia e Didattica, Torino, 2004,  MIUR/Comm.Regionale Storia

[22] Convenzione tra Miur-Insmli sulla formazione a distanza, 2003

[23]A, Delmonaco (a cura di), Fare storia. Crescere cittadini, …., Zona….

[24] A. Delmonaco, M. Gusso (a cura di)La formazione dell’INSMLI 200…..

[25] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004.

[26] L. Lajolo, Strategie per fare storia, in Fare storia, cit.

[27] C. Brigadeci, A. Criscione, G. Deiana, M. Gusso, G. Pennacchietti, Il laboratorio di storia.  Problemi e strategie per l’insegnamento nella prospettiva dei nuovi curricoli e dell’autonomia scolastica, Milano, Unicopli, 2001;  P. Maglietta, E. Musci, G. Pentasuglia, Cyberstoria e cyberstorie, “I viaggi di Erodoto”, n. 37, marzo-maggio 1999.

[28] A. Brusa, Gli studi di caso. Insegnare storia in modo partecipato e facile, www.novecento.org, n. 3, 2014.

[29].storia@ La storia nell’era digitale. Resistenza e seconda guerra mondiale. Digital public history e risorse didattiche digitali. Secondo convegno nazionale sull’insegnamento della storia nell’era digitale – Corso di formazione per insegnanti in ogni ordine e grado e per collaboratori della rete INSMLI, Piacenza 6,7,8 marzo 2014

[30]S. Noiret,Public History” e “storia pubblica” nella rete, www.accademia.eu Gran parte dei contenuti del fascicolo è stata presentata, nel panel intitolato Europeans Approaches to Public History: Identifying Common Needs and Practices al convegno annuale della National Coalition on Public Historyamericana di Pensacola (FL) in aprile 2011

[31] Dossier La storia nell’era digitale, www.novecento.org; www.clio92.it, Storia digitale a uso dello storico e dell’insegnante

[32] V. Rapetti, La resistenza e la memoria tra storia e attualità in (a cura di) V. Rapetti, Memoria della Resistenza, resistenza della memoria nell’Acquese, Acqui Terme, Editrice Impressioni grafiche, 2007, p. 52

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